Giordana Masotto
Perché è necessario e auspicabile “nominare le donne”
con l’intenzione di mettere in discussione il maschile come universale.
Gli uomini non considerano l’esperienza e il sapere della quotidianità
come una leva per cambiare il lavoro e l’economia.
Partire dalla soggettività vuol dire partire dal desiderio.
Se c’è una cosa che ancora non hanno capito la sinistra, il sindacato, e tutti coloro che ragionano e soffrono sul farsi dei soggetti politici, è che l’esserci delle donne nella politica e nel lavoro, non è un problema di adeguamento al genere, di settorialità categoriale, di particolari competenze cui dare accoglienza e valorizzazione.
Le donne vengono sì nominate, ma soprattutto in contesti di discorso in cui diventano una categoria (le donne, i giovani…). Assai più interessante è invece quando il nominarle esprime l’intenzione di mettere in discussione il maschile come universale, cioè la volontà di non più accomodarsi nella nicchia accogliente del neutro.
Meglio ancora: è particolarmente interessante quando “nominare le donne” esprime non un’attitudine edificante (benché io apprezzi il politically correct, in mancanza di meglio), ma il riconoscimento che un maschile che non si interroghi sulla propria differenza, sia nelle relazioni sia nelle politiche che mette in campo, assume di fatto una valenza patriarcale. Al contrario, un maschile che si riconosce anche come “portatore sano di patriarcato” vuole ripensare la politica anche a partire da questa consapevolezza.
È dunque necessario e auspicabile “nominare le donne” perché un maschile che si interroghi sulla propria differenza auspica, chiede, si attiva per avere accanto e di fronte un femminile che nomini la propria differenza: nella consapevolezza che solo da questo conflitto/relazione può nascere la politica. Conflitto/relazione: cioè quel confronto vivace, polemico, non edulcorato ma sentito come necessario, che mette in gioco radicalmente i soggetti in campo, e che a tutt’oggi assai raramente si dà. Oggi, interrogarsi sulla differenza non riguarda solo il femminile ma anche il maschile.
Parliamo, ad esempio, di lavoro.
Oggi, con l’incattivirsi della crisi, da più parti si auspica che il lavoro riprenda centralità, si torna a parlare di diritti, dignità. Anche il diffondersi dell’espressione “lavoro bene comune” (senza entrare qui nel merito del concetto, che viene stiracchiato in direzioni diverse) sembra assolvere spesso alla funzione simbolica di ridare forza e attrattività a una condizione che lo spadroneggiare del capitalismo neoliberista degli ultimi decenni ha immiserito e depresso.
Eppure, questi stessi decenni hanno visto il fiorire dell’esperienza e del pensiero delle donne sul lavoro.
Spinte dall’esigenza di conquistare l’autonomia economica e di sottrarsi al domestico come destino e identità, forti dell’acquisito controllo sulla riproduzione (nella parte di mondo dove il processo è più avanzato), le donne sono entrate massicciamente nel lavoro-per-il-mercato: nell’altro lavoro – quello di riproduzione e manutenzione dell’esistenza, ineliminabile e insostituibile per ogni essere umano, fonte di senso e condizione per la ricerca della felicità, ma invisibile in economia benché complessivamente richieda più ore di quello pagato – c’erano già e hanno continuato in gran parte a esserci.
Dunque le donne hanno dato il là alla messa in discussione di quel tacito patto sociale che si basa sulla divisione sessuale del lavoro.
Come ne usciamo, uomini e donne? Possibile che si possa ancora pensare che il problema è “favorire il lavoro delle donne”? E non, uomini e donne, confrontarsi su come ci collochiamo rispetto a tutto il lavoro necessario per vivere?
Con tutte le altre domande che ne conseguono: su tempo di vita/tempo di lavoro, sulla qualità del welfare (stampella del lavoro o matrice dello sviluppo dell’umano?), sulle priorità da garantire in tempi di crisi e di ricatto, sull’organizzazione del lavoro.
In questa prospettiva, ad esempio, il modello di lavoro lineare full time del maschio breadwinner, già ampiamente corroso dal neoliberismo globalizzato, non va (non andrebbe) bene neppure per risolvere i problemi portati dalle donne (men che meno li risolve il “tutti precari”, ovviamente).
Ma ci sono altre domande importanti: se mettiamo al centro tutto il lavoro necessario per vivere, e riconosciamo come esperienze fondanti per l’essere umano il fatto che tutti “nasciamo da” e siamo immediatamente inseriti in un contesto relazionale, scopriamo che il modello “maschio adulto indipendente” che è alla base del contratto sociale originario, è una mostruosità. Che conseguenze ha invece pensarsi tutti come esseri interdipendenti? Che conseguenze può avere nel lavoro e nell’economia?
A Milano, nel maggio 2011, per dare una risposta politica a questi interrogativi abbiamo creato l’Agorà del lavoro. Senza pretendere di trovare soluzioni, abbiamo cercato di rendere possibile un luogo in cui almeno si potessero fare le domande, in cui dar la parola alle soggettività. In una trentina di persone – le promotrici (molte) e i promotori (pochi) – provenienti da gruppi, ma anche persone singole, radicate nel femminismo storico ma non solo, così abbiamo descritto l’iniziativa:
“L’Agorà del lavoro – per incontrarsi ribellarsi progettare. Una piazza concreta e simbolica, un luogo fertile e radicato nella città di Milano, uno stabile terreno di incontro, a cadenza mensile, dove il lavoro che cambia diventa protagonista.
Qui si intrecceranno storie e soggettività di diverse generazioni, non per dar vita a un inutile confronto tra teorie e pratiche, ma per creare un tessuto effervescente da cui possano scaturire iniziative politiche nuove.
Non ci interessa creare un’improbabile comunità omogenea che appiattisca le differenze, bensì far nascere relazioni che diano valore alle esperienze personali e più forza per negoziare.
Vogliamo ribellarci alle iniquità e alle insensatezze di un mercato del lavoro oggi sempre più lontano dai nostri bisogni e desideri.
La scommessa è proprio quella di trovare nuove parole, più aderenti alla vita, e nuove risposte. L’Agorà sarà dunque un luogo dove tutte e tutti si sentiranno autorizzate/i a esprimersi e a dare il proprio contributo senza timore di critiche o censure. Se il progetto funzionerà, ognuna/o ritornerà nei contesti in cui si trova con più idee, più voglia di esserci, più capacità di contrattare.”
Gli incontri sono proseguiti con regolarità e hanno dato luogo a confronti cui non è così frequente partecipare e che illuminano in modo certamente più articolato i problemi.
Ad esempio c’è stato un confronto appassionato tra lavoratrici autonome e sindacaliste “classiche” non solo sulle diverse aspettative sulla contrattazione, ma anche sul diverso modo di intendere la rappresentanza e ancora più a monte sulla diversa rappresentazione che lavoratrici diverse danno del proprio e dell’altrui lavoro. O ancora, esperienze di contrattazione/negoziazione individuale, a gruppetti, collettiva.
Non credo proprio che questi siano temi “femminili” o del lavoro femminile: sono i temi caldi del lavoro di oggi su cui è imprescindibile confrontarsi se si vuole davvero ritrovare la centralità del lavoro, ma che prendono corpo se si dà fiducia alle soggettività (delle donne e degli uomini che si interrogano sulla propria differenza).
In un altro incontro abbiamo sentito le esperienze di contrattazione – al lavoro e in casa, con i compagni di vita – di madri lavoratrici, i modi, gli esiti, i bilanci. La loro forza e anche il loro isolamento. Ma anche questo sarebbe miope dire che è un problema delle donne, o un problema di giustizia. Il mostruoso buco di natalità che abbiamo in Italia – uno “sciopero” cui molte giovani donne/coppie sono oggi costrette – dovrebbe riguardare tutti, in primo luogo chi si occupa di economia. Così, pensando alla fatica di tante donne a vivere sia il desiderio di maternità che il desiderio di lavoro, io fantastico frotte di uomini, di lavoratori, che volontariamente firmano dimissioni in bianco in caso di paternità, per denunciare un problema che sentono proprio a tutti gli effetti (sul modello delle autodenuncie per combattere la punibilità dell’aborto negli anni ’70).
Abbiamo sentito giovani che rifiutavano sia la logica precaria sia la logica aziendalista del lavoro fisso, mosse/i dal desiderio di inventarsi co-working, e con esso piacere nel lavoro, futuro, immaginazione e nuove regole. Abbiamo intuito germogli di comune vedendo la voglia di una nuova mutualità che ribalta il dilemma pubblico/privato. Abbiamo visto penuria di denaro ma anche allegro rifiuto del consumismo.
Se poi vogliamo per un momento allargare l’orizzonte dal lavoro all’economia, vedremo ad esempio come sia carente puntare nella necessaria, illuminante direzione della conversione ecologica dell’economia, cioè del come e cosa produciamo e consumiamo, se non ci facciamo carico anche dei nessi tra lavoro produttivo e lavoro necessario per vivere, tra sobrietà, di cui si parla, ed economia domestica di cui non si parla. Forse si pensa che le cose si risolveranno da sole in famiglia?
Possiamo invece incominciare a interrogarci su quale conversione del quotidiano si renda necessaria in un auspicabile mondo postpatriarcale in cui le donne sono diventate soggetti che parlano, e non più come nel mondo patriarcale (s)oggetti che stanno lì a rappresentare questo complesso sistema di cura e di relazioni. Le donne stanno lì a garantire ciò che tutti possono permettersi di non vedere. È vero che sempre più uomini agiscono nella quotidianità della vita. Ma, come dicevamo nel Sottosopra – Immagina che il lavoro*, “non considerano l’esperienza e il sapere della quotidianità come una leva per cambiare il lavoro e l’economia.”
Ed è esattamente quello che sta accadendo. Nella sinistra si è ampiamente accreditata un’idea di cura purché disincarnata: il femminismo e le donne possono continuare a parlare di corpo e riproduzione, mentre le analisi generali, le visioni su larga scala e le politiche continuano immutate.
Eppure oggi questo problema, di un quotidiano tendenzialmente non più garantito dalle donne, riguarda tutti, se non vogliamo essere tutti riassorbiti nei sistemi di controllo specialistico, il business della salute in primis (eppure lo sappiamo che il farmaceutico continua a macinare profitti nonostante la crisi!), o la qualità del cibo e dell’agricoltura (ricordiamocene quando parliamo di cibo a kilometro zero e gas, gruppi di acquisto solidale). Insomma se vogliamo discutere di modi in cui consumiamo, perché trattarci da consumatori quando c’è una base materiale di lavoro che incide profondamente su quei consumi?
È chiaro che la soggettività spiazza e spaventa, confonde le acque e le categorie teoriche.
Un po’ di luce può venire da una parola che continuo a considerare illuminante sulla questione dei soggetti. Partire dalla soggettività vuol dire partire dal desiderio.
Desiderio è la pulsione radicale di ogni essere umano all’affermazione di sé, alla propria libertà. Come donne noi abbiamo fatto un duro esercizio di libertà proprio smarcandoci da quella cancellazione del desiderio che era il ruolo femminile imposto.
L’abbiamo imparato lì che si parte dal desiderio. Da lì le donne sono nate come soggetto politico in movimento. Abbiamo scoperto che il desiderio bisogna autorizzarselo, che non è una cosa facile.
Oggi poi è più difficile di ieri, per donne e uomini. Ci hanno confuso le idee spacciandoci per desiderio lo shopping. Cioè un processo di erotizzazione che trasforma tutto in consumo: lo yogurt, il detersivo, la vacanza, il proprio corpo, la propria vita, il proprio lavoro. Tutto è “un’esperienza” unica ed eccitante: telefonare e far la coda al super. Sono d’accordo con chi dice che bisogna deerotizzare il lavoro (ho sentito una ragazza dire “voglio un lavoro con i tacchi”!). Il lavoro non è un consumo. Nel mondo dei consumi le cose finiscono, così dobbiamo ricomprarle. Ma non abbiamo un’altra vita da comprare, un altro corpo, un altro mondo. Il desiderio al contrario non si consuma mai, è progetto di sé, è una pulsione irriducibile che trova limite e misura nella relazione con l’altro e con la realtà. E in questo senso è anche conflittuale.
Non riguarda questo anche gli uomini, come soggetti che vivono relazioni, che lavorano, che pensano, che fanno politica? Si può continuare a considerare “privato” il desiderio maschile, a non vedere i nessi sesso/potere? O a confinare nella tranquillizzante categoria del patologico, la crisi epocale del maschio breadwinner quando non riesce più a fare i conti con il desiderio proprio o della donna che ha di fronte e la ammazza? (i femminicidi come è noto sono in aumento: sono i mariti e i fidanzati che ammazzano le donne, e le ammazzano sempre di più. Gli uomini sono la prima causa di morte per le donne, in Europa e nel mondo).
Concludo tornando all’inizio. Credo che ci sia una questione maschile. Nel 2009 abbiamo detto*: “Il patriarcato è morto: perfino la parola fa pensare al secolo scorso. Possiamo dire che è morto non perché non si manifesti più e siano scomparse discriminazioni e ingiustizie, anche raccapriccianti, ma perché è morto nel cuore delle donne: è questo che ne ha decretato la fine. I patriarchi, coloro che ancora si considerano depositari della libertà femminile e fonte, in quanto uomini, di valori universali – cioè buoni per tutti e tutte – possono, se lo vogliono, rendersene conto.” Quando lo abbiamo scritto, peccavamo di ottimismo della volontà. La nostra naturalmente.
Guardiamo ai molti che vogliono ridare centralità al lavoro e trovare risposte alla crisi della politica, e ci sembra di vedere un grande evitamento: per non fare i conti con il maschile, gentilmente, democraticamente, si “sussumono” le donne.
Quanto a noi: tra chi si àncora al conflitto di classe e chi immagina la palingenesi del comune, vorremmo poter agire tutti quei conflitti che ci consentono di vivere in relazione, donne e uomini.
* Sottosopra – Immagina che il lavoro, un manifesto del lavoro delle donne e degli uomini scritto da Pinuccia Barbieri, Maria Benvenuti, Lia Cigarini, Giordana Masotto, Anna Maria Ponzellini, Silvia Motta, Lorella Zanardo, Lorenza Zanuso del Gruppo lavoro della Libreria delle donne di Milano, ottobre 2009