Cronos ha paura delle donne
Carla Casalini
C’è una storia, una delle tante vicende perigliose dei lavoratori dei call center, di cui appaltanti e appaltatori usano a piene mani le competenze comunicative senza riconoscerne il valore, che però si distingue, in questo caso, per una sua peculiarità. Si tratta della Cronos srl, ultima definizione di una società prima dettasi Opera servizi informatici Scarl, poi Opera Roma Scarl, ma l’accidente nominativo non ne ha mai cambiato la sostanza: si è sempre trattato della stessa «attività», nella stessa sede a Pomezia, degli stessi lavoratori nel trascorrere del tempo, dello stesso personale che li controllava e li dirigeva, degli stessi «mezzi aziendali utilizzati dai lavoratori», così come delle stesse prestazioni per il medesimo committente: Telecom.
Questo si legge nella causa in corso di una fra le lavoratrici fin dall’inizio «socie di cooperativa» e dipendenti con «contratto a tempo indeterminato». E fin qui nulla di nuovo, perché i cambi di nome sono stratagemma ricorrente di molte aziende e società per lucrare su margini di guadagno, solitamente a danno dei dipendenti, che siano o meno anche «soci». Il primo problema nasce – anche qui evento non rarissimo – dalla condiscendenza dei sindacati a questo tipo di operazioni.
Che succede infatti nel momento in cui la medesima azienda cambia il proprio nome in «Cronos»? Succede che le segreterie regionali del Lazio di Slc-Cgil, Fistel-Cisl, Uilcom Uil, nel febbraio del 2005 firmano un accordo in cui consentono alla società la finzione di stare dando vita a una «nuova unità produttiva», e dunque gratificano Cronos nella sua dichiarazione di essere «disposta a offrire una valida opportunità di occupazione agli ex soci della cooperativa», ossia i 257 lavoratori della Opera Roma Scarl. Questo implica che il sindacato, con quell’accordo, accetta che «per la prosecuzione del rapporto di lavoro» tutti i 257 donne e uomini, che da tempo erano operavano con un contratto a tempo indeterminato, debbano piegarsi a essere considerati manodopera di nuovo impiego, piegarsi a una «riassunzione ex nunc».
Così, improvvisamente trasformati in lavoratori di primo impiego,grazie all’accordo coi sindacati Cronos decide che 126 di loro si troveranno con «rapporti di lavoro a tempo indeterminato» ma con «esclusione del periodo di prova»; mentre altri 131, dopo anni di lavoro stabile, devono accettare di ritrovarsi come addetti di primo pelo, a ricominciare la trafila inquadrati con «contratti di inserimento». Come si vede, le violazioni di legge e codice di cui i sindacati si rendono complici sono molteplici, ma a quanto pare sperano nel futuro, grazie alla scrittura che nell’accordo prevede che per loro ci sarà «comunque l’assunzione a tempo indeterminato entro 18 mesi», ovvero «nel settembre 2006».
Molte di simili tappe deprimenti si sono già viste in altri percorsi delle società di servizi, coadiuvate da accordi sindacali, ma per la Cronos c’è, come dicevamo, una peculiarità in più. Infatti, i «126 rapporti di lavoro a tempo indeterminato» riguardano esclusivamente lavoratori di sesso maschile, mentre i «131 contratti di inserimento» sono dedicati esclusivamente alla parte femminile degli «ex soci» dipendenti.
Manco a dirsi, Cronos poi non rispetterà neppure i termini di quel deprimente accordo sindacale. Eppure nel frattempo assumerà altre persone, a tempo sia indeterminato, che determinato, e anche in affitto.
Ma non succede nulla. Sulla incredibile violazione della dignità femminile, nella forma di discriminazione sul lavoro, non interverranno i sindacati (che già ne avevano accettato l’assunto d’origine). Ma non si smuoveranno neanche le famose «consigliere per la parità», di qualsivoglia livello istituzionale. Alle donne offese da questa anacronistica pretesa maschile – aziendale e sindacale – non resta che il ricorso individuale alle cause in tribunale. Che inizieranno a metà luglio.