Iaia Vantaggiato
Il titolo dell’ultimo dei «Quaderni di via Dogana» – Tre donne e due uomini parlano del lavoro che cambia – non restituisce pienamente l’intreccio di voci che fa da sfondo alla trama degli interventi ora raccolti ma presentati già un anno fa, a Barcellona, nel corso di una tavola rotonda su «Femminilizzazione del lavoro e postfordismo». Del resto, a sottolinearlo sono proprio gli autori e le autrici del volume – Cristina Borderías, Christian Marazzi, Sergio Bologna, Lia Cigarini e Adriana Nannicini – con i loro continui rimandi alle testimonianze di altre donne e di altri uomini (più donne che uomini).
Ed è proprio la narrazione dell’esperienza del lavoro, intesa come punto di partenza della riflessione teorica, il filo rosso che lega tra loro i diversi contributi. Una pratica pressoché coincidente con quel «partire da sé» messo letteralmente in parola dal pensiero della differenza sessuale ma che nei «discorsi» sul lavoro – in particolare sul lavoro che cambia – assume particolare pregnanza. La «narrazione» consente infatti e in primo luogo, come dice Cigarini, di dare un taglio politico a una riflessione non più concentrata sulla «condizione della donna», ma aperta a «una interrogazione di senso del lavoro in rapporto a una interpretazione libera dell’essere donna». Qualsiasi donna, aggiungerei, nella sua irriducibile differenza.
Ma c’è di più: nello «spazio narrante» – concetto che Nannicini riprende da Ginevra Bompiani – si stabilisce tra chi parla e chi ascolta, tra «la voce narrante e il desiderio di ascoltare», una tensione la quale sola origina «l’opera narrativa». Ebbene, leggendo questo piccolo volume, viene da pensare al lavoro come a una opera narrativa e – alle donne – come alle autrici e alle lettrici di questa narrazione. Che stia qui il senso del continuo accostamento che ormai da qualche anno si fa tra postfordismo e femminilizzazione del lavoro? Che sia, in altri termini, il lavoro femminilizzato l’opera narrativa che maggiormente esprime il senso dell’epoca postfordista? Il suo essere senza luogo e in ogni luogo, precario e insieme pervasivo, indistinto – nel «suo» tempo – dal tempo della vita. Non restituisce tutto questo la trama di una narrazione che – come ancora sottolinea Nannicini – avviene fuori dagli spazi lavorativi, «in un qui che è stato costruito perché là la narrazione non può avvenire. Queste donne scrive – hanno costruito un “altrove” per esprimere un “altrimenti”».
Ma il terzo volume della «Collana Lavoro» dei «Quaderni» non si limita alla presentazione dell’opera narrativa più «difficile» del XXI secolo. La forza, cerca di scardinarne la sintassi facendone emergere contraddizioni e inciampi lessicali. Due più di tutti colpiscono. Perché dissonanti rispetto al dettato dei vocabolari comuni: quello che Cigarini definisce «il doppio sì» (alla maternità e al lavoro) e la ricerca di nuove forme di lotta che spesso proprio quel «doppio sì» rende necessarie. In entrambi i casi a parlare è una eccedenza di senso che rifiuta di soggiacere alla regola del mercato e a quella del sindacato e che non cade nell’errore «di ignorare la asimmetria tra i sessi o di ridurla a mera diseguaglianza».