(Ne discutiamo sabato 16 giugno, alle ore 14:00, alla Casa Internazionale delle Donne (via San Francesco di Sales 1/a), prima della manifestazione de La meglio gioventù (ore 18:00, Piazza Farnese) http://lamegliogioventu.org/)
Il lavoro come rapporto sociale fondamentale che trasforma il mondo e la natura? Che produce ricchezza e libera gli uomini? Che fonda le comunità, gli dà un’etica e garantisce le identità individuali? Che qualifica la cittadinanza e dà accesso a diritti? Quest’idea del lavoro, spazio pubblico dove si gioca la trasformazione della società e il costituirsi dei soggetti collettivi, è stata uno dei fondamenti storici dell’identità maschile, del suo modo di stare al mondo, di pensare la relazione tra le cose. Quest’idea ha prodotto ed è il prodotto di un mondo fondato sulla divisione sessuale del lavoro, sulla separazione tra pubblico e privato e tra produzione e riproduzione.
E noi come stiamo in questa scena? Ci siamo anche noi, con le nostre vite, le nostre scelte, le nostre relazioni, i nostri desideri, la nostra sessualità. Nelle nostre mille vite lavorative, noi costruiamo progetti, esploriamo la creatività, tentiamo di far vivere idee di futuro, letture della realtà, forme di relazione più ricche, anche se il “mercato” non sembra interessato a questa qualità. La distinzione tra vita e lavoro, tra tempo produttivo e tempo libero è sempre meno definita: siamo sempre al lavoro, sempre in connessione, disponibili. Il lavoro pervade il nostro tempo, anche quando siamo “senza lavoro”. Abbiamo probabilmente un’idea di lavoro diversa. Forse non tutti la teorizziamo, sicuramente la pratichiamo e la raccontiamo con le nostre stesse vite. Reti, gruppi collettivi, soprattutto di donne, ne hanno fatto però, e da tempo, anche l’oggetto della loro iniziativa politica.
Di noi si dice che siamo atipici, precari, autonomi, collaboratori, occasionali, consulenti, disoccupati, flessibili, freelance, giovani o meno giovani…
Questo linguaggio ci rappresenta astrattamente, prescindendo dai nostri corpi, di uomini e di donne, dalla parzialità di genere che ci costituisce e che definisce il nostro desiderio, da ciò che siamo nella concretezza di ciascuna delle nostre vite.
Questo linguaggio cancella le differenze. Le donne sono sempre state “atipiche”, “parasubordinate” e “precarie”, anche quando il lavoro era meno intermittente di così, anche quando avevano un contratto a tempo indeterminato. Le donne conoscono bene il tema del ricatto, quello che dal mondo del lavoro si trasferisce alle questioni della vita, sanno cosa vuol dire lavorare con meno diritti e sempre meno valore, anche economico, a parità di mansioni. Gli uomini conoscono anche un’altra precarietà, che è piuttosto quella percezione di precarietà della propria virilità che segna il modo in cui stanno al mondo. Storicamente gli uomini hanno risposto cercando fuori di sé la conferma della propria identità, nel lavoro, nell’esercizio del governo della città, nella competizione e nella performance, oltre i limiti del proprio corpo. Oggi che tutto questo è in crisi, anche agli uomini è chiesto di costruire un altro senso per le proprie vite.
Questo linguaggio non riesce a rendere conto della trasformazione e fa circolare disvalore. E’ lo stesso linguaggio che racconta i nostri tempi come tempi di crisi e presenta questa crisi come oggettiva, neutrale, come unica realtà possibile: nasconde gli interessi in gioco, nasconde i paradigmi che vengono meno, esclude da sé ogni cambio di paradigma.
Noi ora siamo qui – perché la partecipazione alla vita democratica del proprio paese è una questione di tempi e il nostro tempo è adesso – a dire altro di noi, a raccontare altre idee della vita e del lavoro, oltre la separatezza tra la politica e la vita. Siamo qui anche per chiedere diritti, ma sappiamo che se sono pensati per soggetti disincarnati, astratti, per “lavoratori” senza corpo, questi diritti non funzionano, girano a vuoto. Noi, i diritti, li vogliamo radicare al qui ed ora, in un’idea sessuata della cittadinanza, cioè un’altra idea di stare al mondo, che inventa nuovi stili di vita e di relazione tra donne e uomini e tra diverse generazioni. Questo è il conflitto di cui ci sentiamo portatori, che sta dentro di noi. I diritti non sono una torta e non li vogliamo tagliare a fette.
Noi che “navighiamo a vista nel mare della precarietà”, che ogni giorno viviamo la mancanza di autonomia economica, la scarsità delle risorse materiali, ma non di quelle simboliche, l’incertezza del futuro, sappiamo che per sostenere le nostre vite e quelle degli altri serve uscire dalla solitudine, serve accendere passioni positive, serva andare oltre la depressione e la rabbia, serve trovare parole diverse da far circolare e serve far valere il nostro vissuto. Del mondo in cui viviamo noi vogliamo prenderci cura.
maria pia pizzolante, claudio vedovati, virginia romano, monica pasquino, emanuele toscano, astrid d’eredità, chiara martucci, stefano augeri, enrico sitta, teresa di martino, giuseppe allegri, angela ammirati,stefano ciccone, simona davoli, marco furfaro, claudia pratelli, renata scognamiglio, agnese ambrosi , maria la porta, salvatore marra, rosario coco, maria luisa boccia e chiunque voglia aggiungersi