Cosma Orsi
La parola a Daniela Parisi
Regole internazionali nuove per la finanza, attenzione alle condizioni dei lavoratori e una riforma etica della democrazia. Con questa intervista si chiude la serie «il capitalismo invecchia?», mentre la discussione continuerà sul sito de «il manifesto» È stata salvata la finanza, aggravando così le disuguaglianze sociali, radice primaria della crisi. Ora si deve porre attenzione primaria al lavoro, meglio ai lavoratori
L’uscita dalla crisi sarà possibile solo se saranno rispettate alcune condizioni: regole certe a livello internazionale; un cambiamento delle priorità, mettendo cioè al primo posto le condizioni dei lavoratori; una democrazia politica che veda il massimo della partecipazione nelle procedure decisionali a tutela dei beni comuni. Con questa intervista si chiude la serie «il capitalismo invecchia?», avviata, coinvolgendo un nutrito gruppo di economisti, per cercare di spiegare la natura di una crisi che in molti degli intervistati hanno definito sistemica, senza che questo significhi il superamento del capitalismo. La discussione proseguirà nel sito internet de il manifesto (www.ilmanifesto.it).
Le domande fondamentali a cui gli economisti cercano una risposta possono essere riassunte così: qual è la natura di questa crisi; è una crisi finanziaria o reale, ciclica o sistemica? Ha senso un confronto con la crisi del ’29?
Considererei la crisi attuale come una crisi sistemica, dove il termine sistemica deve accompagnarsi ad una serie di specificazioni. È sistemica perché riguarda il sistema economico sia nei suoi aspetti reali che finanziari; perché ora riguarda tutto il mondo e si è innestata su criticità, anche extraeconomiche, specifiche di singole regioni geografiche; riguarda il sistema delle relazioni tra gli agenti di un sistema economico in cui non c’è trasparenza, non c’è possibilità di ricondurre fatti a responsabilità precise; riguarda il rapporto tra teoria economica e policy, perché la teoria si è focalizzata sulla produzione di modelli econometrici – tipo il Var sviluppato all’inizio degli anni Novanta e adottato ampiamente – con cui si pensava di poter controllare i rischi delle sempre più numerose e varie attività finanziarie ed è diventato impossibile inserire nell’analisi economica elementi di valutazione. Infine, perché da un epicentro, si è subito dispiegata sui paesi più poveri e sulle fasce più povere di ogni paese. È il disvelamento di distorsioni presenti nel sistema mondo che riguardano, tra l’altro, lo sfruttamento delle risorse e la distribuzione del reddito.
Le vittime saranno tante e ben sappiamo chi saranno. Per quanto riguarda i confronti con il 1929, è bene sottolineare che è sempre importante tener conto delle specificità di qualsiasi evento. Se proprio vogliano guardare al passato, vediamo che ieri come oggi è sul tappeto il rapporto tra stato e mercato. Proprio a questo riguardo allora chiediamoci: come agì Franklin Delano Roosevelt nel 1933? Entrò nella Stanza Ovale e decise che dopo anni di depressione era improcrastinabile prendere decisioni: nominò Ferdinand Pecora a capo di una commissione che investigasse sugli eccessi speculativi che avevano favorito la depressione. Interrogò l’élite della finanza e svelò tutto lo svelabile. Fu promulgato il Glass-Steagall Act e le leggi che hanno dato vita anche alla Securities and Exchange Commission. L’Nber ha datato l’inizio della crisi nel dicembre 2007, ma non circolano ancora informazioni certe sui comportamenti tenuti dalle élite della finanza, né la società sembra ancora sufficientemente indignata e irritata da ciò, mentre le discussioni interne rischiano di erodere la possibilità di un sostegno politico sufficiente per procedere ad una complessiva ri-regolazione della finanza.
Quanto ha giocato, nella loro incapacità di valutare la probabilità della crisi, la predilezione degli economisti mainstream per la formalizzazione matematica, a scapito della conoscenza della storia dell’analisi economica – e della storia in generale?
Non si tratta di condannare la costruzione dei modelli economici in sé ma di condannare la mancanza di una valutazione critica dei modelli. In questo serve coltivare sensibilità storica: la storia abitua a guardare con attenzione molteplici scenari ognuno diverso dall’altro e diverso dal nostro. Chi non ha questa dimestichezza non trova interesse nella lettura degli scenari attuali allo scopo di portarne in evidenza i fattori di complessità, tende a semplificare e impoverire la propria capacità di analisi e a scambiare le sfumature del quadro scenico per mere ombre, non sa dare importanza alla ricerca delle radici dei fenomeni complessi. Il passato lo si ri-legge, lo si ri-scrive, lo si ri-vede non per farne un monumento ad uso e consumo di interessi passeggeri ma per preservare ciò che di vitale dal passato arriva a noi costituendo il tessuto, oggi, della continuità del lavoro umano.
Il cambiamento nel tempo e nello spazio della «pasta» di cui noi siamo fatti, così come lo sono le istituzioni, rappresenta un processo incessante di cui bisogna tener conto. Ciò è perlomeno strano, in quanto la storia del pensiero economico rivela come i grandi economisti abbiano costante questa preoccupazione e anche quella del mantenimento del dialogo tra i saperi, economici e non. Poi c’è un terzo problema, quello della divulgazione e dell’applicazione del sapere: si preferisce divulgare «certezze» semplificatorie, slogan, piuttosto che dibattiti sulla problematicità delle questioni teoriche e delle ipotesi sottostanti alle teorie. È più facile e veloce applicare modelli, scambiandoli per la realtà, piuttosto che chiedersi cosa ci sia effettivamente dentro questi modelli. La storia insegna che la società non è un laboratorio a cui applicare modelli. Non si vuole ammettere che l’essere umano è sempre in fieri e mai «concluso»? ma non è di questa certezza che si vive? Perché, allora, negarla? quello che disorienta è ammettere che otium e neg-otium sono elementi non disgiungibili per gli esseri umani? Che la contemplazione del bello fa parte della vita umana?
Da tempo commentatori autorevoli avevano fatto notare che la libera e frenetica circolazione dei capitali (risultato delle liberalizzazioni e deregolamentazioni della finanza) mina le basi stesse della democrazia economica, cioè della democrazia stessa. Ritiene che il ruolo della politica, oggi, dovrebbe essere soltanto quello di regolatore del mercato o dovrebbe spingersi più in la?
Non riesco a intravedere che ruolo oggi possa svolgere la politica se si assegna a questo ambito professionale ciò che concerne il bene comune sulla base di un dettame costituzionale dal carattere rigido, diciamo, molto meno flessibile del resto del sistema giuridico. Vorrei aggiungere a quanto già detto in tema di governance che oggi si fa urgente pensare ad un cambiamento della forma di governo «democrazia» la cui tenuta è debole perché si regge soprattutto sul criterio della governabilità a scapito di quello della rappresentanza e sul suo ripiegamento su molti appetiti privati. Come passare, allora, da una democrazia politica bloccata, anzi vittima di eutanasia, ad una democrazia che prenda vita dal basso, dalla voce cioè di quelli che vivono operando nel sistema? Sarebbe necessario considerare la politica una esperienza etica che si pratica, ascoltare le voci dalla società, tutte voci di persone che, in quanto tali, ontologicamente sono in dialogo. Forse eccedo nella fantasia. Ma forse no.
Molti ritengono che la soluzione della crisi non possa avvenire che sull’asse Washington-Pechino. È ipotizzabile che il modello europeo di stato sociale, se ancora di un modello europeo si può parlare, possa rappresentare un riferimento per politiche economiche alternative tanto al Washington Consensus, quanto al capitalismo di stato cinese? O c’è il rischio che nel futuro assetto economico-politico mondiale l’Europa (con il sud del mondo) venga confinata ad una posizione marginale?
La crisi ha fatto emergere un dato ineludibile: non c’è un sistema monetario internazionale, non una istituzione in grado di coordinare o «sorvegliare» le politiche macroeconomiche dei paesi più influenti. E restano le domande: c’è l’intenzione che Fed, Bce e autorità monetarie cinesi si accordino per mantenere il tasso di cambio tra le valute entro limiti prefissati? Ci sono le condizioni perché ciò avvenga? L’Europa deve esserci attorno ad un tavolo di governance altrimenti si cancella il percorso originale e unico di un continente che va unificandosi non attraverso guerre e politiche di annessione; bisogna considerare, a proposito, che l’unificazione non si realizza attraverso una comune, indispensabile, politica monetaria, ma attraverso un «governo» dell’Europa.
L’attuale aumento della spesa pubblica non riguarda la spesa sociale (istruzione, sanità, pensioni e sussidi di disoccupazione), bensì il salvataggio di banche, società finanziarie e grandi gruppi. Ciò avviene però comprimendo i redditi da lavoro (salari reali e le pensioni): un intervento dal lato dell’offerta, anziché della domanda è la giusta strategia per uscire dalla crisi, tornando a livelli accettabili di disoccupazione?
È vero che la prima mossa è stata quella di «salvare la finanza» e ciò non ha fatto che aggravare il problema delle disuguaglianze che è stato alla radice della crisi. Sono convinta che al centro del processo di cambiamento del sistema economico si debba porre attenzione primaria al «lavoro», o meglio ai «lavoratori». Da questa centralità la scienza economica dovrebbe prendere le mosse perchè il lavoro è la forma prima che il dialogo prende, perché il lavoro è, ontologicamente, parte e manifestazione della persona stessa che traffica col mondo e nel mondo. Questo è vero per ogni persona del mondo, perché il lavoro crea la ricchezza sia nei paesi in cui si vive miseramente sia in quelli in cui la conoscenza è la risorsa principale. Nella nostra società avanzata si lavora sulla base e attraverso la conoscenza: chi «conosce» mette in gioco la propria libertà, può accogliere, custodire, rendere disponibile, maturare, incrementare gli insegnamenti; ma può anche rapinare informazioni, nasconderle gelosamente, contraffare o mentire sulla conoscenza acquisita. E così facendo, nell’uno e nell’altro caso, ognuno diviene se stesso in questo genere di tessuto, genera frutti (istituzioni e rapporti).
Quale sarà il prezzo che le future generazioni dovranno sopportare a fronte delle forme e delle dimensioni dell’ indebitamento a cui oggi i governi hanno fatto ricorso nel tentativo di non far naufragare l’economia mondiale?
Non abbiamo forse due orecchie, due occhi e una bocca? Dovremmo allora ascoltare e guardare il doppio di quello che diciamo. Ma forse questo non accade perché le due mani che abbiamo ci portano ad appropriarci in fretta e furia allungando le braccia più in là possibile per espandere e affermare noi stessi. In questo gli economisti possono dare veramente tanto, indagando i processi moltiplicativi del valore della conoscenza e analizzando funzione e ruolo dell’economia della conoscenza. Però, è chiaro, non si lavora se non si hanno le capacità e le motivazioni e se non si ha fiducia nel sistema in cui si vive. La strategia di rientro dal debito sarà in tutti i paesi una tragica realtà perché renderà le disuguaglianze più marcate e devastanti per molti. Interessanti sono i ragionamenti degli economisti di oggi attorno al problema dell’esistenza di una domanda effettiva e di una «offerta effettiva», cioè di capacità di produrre. Fare ciò può servire a stimolare, a far ripartire il processo produttivo anche se si teme che le imprese stimolate da interventi governativi possano trovarsi troppo «legate» e meno flessibili, meno favorevoli a cogliere opportunità di cambiamento e meno creative. Insomma, l’imprenditore vorrebbe poter scegliere lui il proprio finanziatore e scegliere lui a quali consumatori proporre i propri prodotti.