di Michelina Borsari
Rilettura di un titolo, “Sputiamo su Hegel”, ora dalla Tartaruga, in cui lo sdegno di rivolta trascina concetti e consuetudini davanti al tribunale della condizione asservita delle donne
Nella presa di parola di Carla Lonzi – anno 1970 – si concentra una carica sovversiva che il tempo pare non logorare, e i suoi primi scritti restano portatori di un pathos di rivolta che non solo li conferma come innesco originale e dirompente del femminismo italiano, ma ne proietta la potenza critica dentro lo stato presente del patriarcato.
A calco della raccolta del 1974, curata dalla stessa Lonzi nei libretti verdi di «Rivolta Femminile», e come prima tappa dell’opera omnia, La Tartaruga – ora nel catalogo della Nave di Teseo – ripubblica Sputiamo su Hegel e altri scritti, a cura di Annarosa Buttarelli (pp. 144, € 16,00).
Deliberatamente privi di commento critico – «che spegnerebbe la loro forza travolgente» – i testi della raccolta sfidano la possibilità di una ricezione apatica, si tratti di lettura o rilettura: la loro speciale eloquenza porta il marchio di un’autenticità che cattura, quasi fossero scritti performativi, che rendono fattuale ciò che nominano.
Sulla pagina, si presentano composti da periodi brevi e folgoranti, distanziati come le strofe poetiche da stacchi silenziosi in cui il pensiero prende fiato, e sterzate inattese verso imprevisti «punti di coscienza». Non procedono, in altri termini, secondo l’andamento argomentativo di un sapere oggettivante e universale, e neppure secondo quello narrativo che racconta storie personali immediatamente vissute. Esito di rivelazione e di rivolta – «Il problema femminile mette in questione tutto l’operato e il pensato dell’uomo assoluto, dell’uomo che non aveva coscienza della donna come di un essere umano alla sua stessa stregua» – le affermazioni di Carla Lonzi hanno un registro diretto e affermativo, privo di vaghezze, in cui resta l’eco del gran lavoro di sottrazione e di sgombero servito a modellare la sua lingua come appena nata, idioma di un paese che parla da fuori.
Da una simile riva extraterritoriale, l’oggettività ricompare come un’impostura che ha mutilato la metà della terra. Una delusione cocente accompagna in particolare la consapevolezza che la cultura maschile, in ogni suo aspetto, ha teorizzato l’inferiorità della donna: «Della grande umiliazione che il mondo patriarcale ci ha imposto, noi consideriamo responsabili i sistematici del pensiero» che hanno «giustificato nella metafisica, ciò che era ingiusto e atroce nella vita della donna».
In un titolo che ha fatto, e fa, scandalo – Sputiamo su Hegel – prende corpo linguistico uno sdegno di rivolta che agguanta i concetti alla nuca e li trascina davanti al tribunale della condizione asservita della donna: al principio femminino «mancano le premesse per scindersi dall’ethos della famiglia», la dialettica servo-padrone – figura chiave del corso storico – si rivela «una regolazione di conti tra collettivi di uomini»; l’inversione tra causa ed effetto, natura e storia, riattiva il millenario dispositivo patriarcale.
Hegel non è che una sagoma, dietro la quale subito si stagliano quelle di Marx e di Engels, di Lenin e della lotta di classe: «Le donne hanno coscienza del legame politico che esiste tra l’ideologia marxista-leninista e le loro sofferenze, bisogni e aspirazioni. Ma non credono che sia possibile per loro essere una conseguenza della rivoluzione». L’oppressione della donna è il risultato di una eredità millenaria, che il capitalismo non ha dunque prodotto bensì fatto propria, e non riconoscerlo impedisce al materialismo storico di risalire all’archetipo della «patologia possessiva» che vede la donna come preda sessuale.
I responsabili – ai quali si aggiungono Freud e Reich, altri «rinnovatori patriarcali» – vengono smascherati sul loro terreno, ma soprattutto messi fuori gioco da un passo laterale che non attende superamenti dialettici e celebra una concezione aperta della storia: «Il futuro ci importa che sia imprevisto piuttosto che eccezionale».
Gli scatti e gli scarti della scrittura di Lonzi sono alfieri di questa apertura, accolgono l’inatteso e l’inaudito, la libera insubordinazione agli schemi pregiudicati e «l’affinità caratteriale che troviamo con gli artisti».
Vi si avverte una certa fierezza giovanile e la carica erotica che proviene dall’assunzione del piacere femminile come punto di rivolta. «Ci preme moltissimo che venga salvaguardato nella donna quello scatto straordinario di baldanza emotiva che fa parte del periodo vitale della giovinezza e con cui gli individui gettano le basi della creatività che darà l’impronta alla loro vita».
Si comprende così che il vero imprevisto, il tesoro inimmaginato e impensato, è il soggetto che parla in questa scrittura, la donna: né ricompresa in un genere umano che mistifica la differenza sessuale, né impegnata a eguagliare il suo oppressore sulla strada dell’emancipazione.
Come si attiva questo soggetto radicale e sovversivo, grazie al quale «potremmo scoprire qualcosa di essenziale, qualcosa che cambia tutto, il senso di noi, dei rapporti, della vita»?
La sua postura imprevista è resa possibile dal riconoscimento di altre donne all’interno dei gruppi di autocoscienza femminile, dove autocoscienza non nomina la stazione mediana dello schema dialettico di Hegel, ma la pratica di relazioni vissute in piccoli gruppi separatisti – «Trattiamo solo con donne» – che hanno preso congedo dalla politica come mobilitazione e lotta organizzata di massa.
Non a caso la raccolta apre con il Manifesto di Rivolta Femminile, e chiude con Il significato dell’autocoscienza nei gruppi femministi, a firma collettiva.
(Il manifesto, Alias edizione del 21 gennaio 2024)