di Franca Fortunato
Se è vero che la guerra, con le dovute eccezioni, non ha un volto di donna, come scrive la scrittrice bielorussa Svetlana Aleksievič, è certo, invece, che la lotta e la resistenza ha il volto di tante donne. Donne libere e consapevoli, unite contro il dominio e la violenza degli uomini sul loro corpo. Sono (siamo) le figlie e le nipoti di Delia, la protagonista del film geniale di Paola Cortellesi C’è ancora domani. Un domani che, grazie alle femministe, per noi donne è divenuto il nostro oggi, un tempo di libertà femminile ma non di libertà maschile per tutti quegli uomini, troppi, che non accettano di perdere il dominio e il controllo sul corpo e la vita delle donne. Da qui il loro odio verso le donne e la paura della libertà femminile che generano violenza, stupri, molestie fino al femminicidio. Loro sono gli eredi di Ivano, il marito di Delia, che, figlio degno di suo padre, sin dalla prima scena del film dà alla moglie, che lo saluta a letto, un sonoro ceffone in faccia perché si è svegliata tardi. Donne libere e consapevoli sono le afghane. È di loro che voglio parlare, dopo aver letto il libro Noi, afghane. Voci di donne che resistono ai talebani di Lucia Capuzzi, Viviana Daloiso e Antonella Mariani, tre giornaliste dell’“Avvenire” che raccolgono le lettere al giornale inviate da Kabul e le testimonianze e interviste a donne che, fuggite dopo il ritorno dei talebani, vivono in esilio. Tutte chiedono alla comunità internazionale, ai mass media e a tutte/i noi di non dimenticarle, di non lasciarle sole e di accogliere «quante/i fuggono dal Paese perché non possono più rimanere», come quelle/i fatti morire nel naufragio di Cutro. Si sentono “tradite”, in particolare dagli Stati Uniti. È per non dimenticarle che nasce il libro e io ne scrivo. Chi è fuggita parla con nostalgia del suo Paese dove sogna un giorno di tornare. Chi è rimasta parla con rabbia e indignazione dei divieti imposti dai talebani, ma non rinuncia ai sogni, alla volontà di vivere, di lottare e resistere. «Prima ci hanno intimato che studiassimo solo in casa e non lavorassimo più, poi hanno detto che il velo non bastava ed era obbligatorio il burqa, poi ci hanno impedito di andare nel bazar e fare la spesa, di passeggiare, di frequentare i centri sportivi e le piscine prima riservate a noi. È proibito cantare. Ridere è un peccato. Non ci ammazzano tutte perché serviamo per partorire. Naturalmente figli maschi. Una donna se esce deve essere accompagnata da un maschio, mai da sola.» Ma loro sono donne resilienti. C’è chi, espulsa dall’università, continua a studiare online e insegna di nascosto alle altre ragazze. L’associazione di donne Rawa, col ritorno dei talebani, è tornata con le scuole segrete. «Insegniamo a poche persone nella stanza dove la famiglia vive e dorme. Teniamo la voce bassa, siamo pronte a fare sparire in fretta i pochi libri e quaderni che portiamo con noi e fingere di stare leggendo il Corano o insegnando uno dei pochi mestieri permessi (sarta)». C’è chi con la figlia prepara in casa biscotti e torte di compleanno e le vende on line perché «c’è ancora chi festeggia, e chi viene festeggiato, nelle città. Di nascosto», e intanto sogna il giorno in cui avrà un suo negozio e «ci saranno negozi ovunque, donne ovunque che lavorano, libere». C’è chi sogna ancora di diventare pilota e chi «durante la notte, in segreto, continua a scrivere canzoni perché l’arte non può essere repressa e soffocata». Fuori «si vedono solo maschi», città senza donne. Dopo le manifestazioni contro i divieti, represse con la forza, le donne hanno fatto della casa un luogo di libertà, di lotta e di resistenza, e parlano. Altro che “stai zitta”. Per loro, c’è da credere, “C’è ancora un domani”. Non dimentichiamole.
(Il Quotidiano del Sud, rubrica “Io, donna”, 18 novembre 2023)