di Paolo Tamassia
La singolare concezione dell’attività letteraria di Annie Ernaux è esplicitata fin dal titolo del breve e intenso La scrittura come un coltello (L’orma, pp. 168, € 18,00), raccolta di una serie di interviste realizzate via mail, e concesse da Ernaux a Frédéric-Yves Jeannet – scrittore messicano di origine francese – tra il 2002 e il 2003, nelle quali l’autrice si sofferma con analisi dettagliate e appassionanti sulle motivazioni che stanno dietro la sua opera: i due interlocutori si riconoscono molto distanti l’uno dall’altra, con punti di vista lontani, quasi opposti, che paradossalmente – riconosce Ernaux – hanno permesso una grande libertà di espressione in obbedienza a un «duplice mandato di sincerità e precisione».
L’approdo a se stessa
Con grande lucidità e chiarezza, l’autrice ripercorre le tappe della sua vita e della sua scrittura, legate tra loro indissolubilmente. La conquista della propria voce, dichiara la scrittrice francese, si compie nel 1983 con Il posto: «In quel libro ho inaugurato una postura di scrittura, che mantengo tuttora: un’esplorazione della realtà esterna o interna, dell’intimo e del sociale in un unico movimento che si colloca al di fuori della finzione».
La sua presa di coscienza politica, a partire dalla posizione di “transfuga” che approda a una classe sociale più agiata di quella d’origine, fa maturare via via in lei il desiderio di voler realizzare con la letteratura «non più qualcosa di bello, ma innanzitutto qualcosa di reale». Da qui, la sua «scrittura piatta» che in una rastremata economia verbale intende restituire una realtà personale e collettiva, «perché in fondo di universale non esiste nulla». È in questo senso che la sua scrittura si fa «coltello», vera e propria arma e «atto politico», in grado di operare uno «svelamento e un cambiamento del mondo». Scrivere è nella concezione di Ernaux l’intrapresa di un’esplorazione rischiosa, che deve muoversi sempre “tra”: tra la letteratura, e la sociologia, tra la sociologia e la storia, allo scopo di giungere a quella che la scrittrice chiama «transustanziazione», ossia una «trasformazione di ciò che avviene al vissuto, a “me”, in qualcosa che esiste completamente al di fuori della mia persona». Questo passaggio si può compiere proprio grazie a quella lama affilata, la scrittura, che, abbandonata la funzione di specchio dell’Io, si fa ricerca di una verità al di fuori di sé.
Tutt’altro che narcisistica, la prosa di Annie Ernaux si investe della missione di salvare dall’oblio persone e cose. Eppure questo salvataggio della memoria non è mai scindibile dalla funzione della letteratura come scoperta: «Se dovessi dare una definizione di ciò che è la scrittura, sarebbe questa: scoprire scrivendo quel che è impossibile scoprire in altro modo, attraverso le conversazioni, i viaggi, gli spettacoli eccetera. O anche solo attraverso la riflessione pura e semplice. Scoprire qualcosa che non esiste prima della scrittura. E questa è la gioia – e la paura – della scrittura: non sapere cosa farà ergere, cosa farà accadere».
La lunga intervista è seguita da un «Aggiornamento» scritto da Ernaux dieci anni dopo, in un contesto generale profondamente mutato, e vale come dimostrazione di quanto siano rimasti fedeli a se stessi i principi estetici della scrittrice normanna nel corso del tempo, pur nella varietà dei territori narrativi esplorati.
Impietosa precisione
In chiusura, una nota del traduttore e editore, Lorenzo Flabbi, ripercorre la storia dell’incontro con l’opera di Annie Ernaux e l’approdo all’Orma fin dall’anno della sua fondazione. Le sue note alla traduzione del primo testo pubblicato, Il posto, sono preziose proprio perché illustrano le difficoltà nel rendere la precisione della “scrittura piatta” di Annie Ernaux e ne fanno comprendere la particolarissima fisionomia: «L’esattezza… La sua impietosa precisione priva di fronzoli, uno stile inconfondibile e anche, proprio in virtù della sua ricercatissima semplicità, massimamente fraintendibile».
(il manifesto – Alias Domenica, 24 novembre 2024)