Umberto Galimberti
Ogni tanto le case editrici, invece di pubblicare libri per fare fatturato, non si sa per quale incidente, pubblicano cultura. Non quella dei dotti con le note a piè di pagina, ma quella abissale e originaria da cui sono nate le religioni, le opere d’arte, la letteratura che scruta l’anima, sconfinando fin dove è possibile, ai limiti del delirio e dentro il delirio, rendendoci in tutta evidenza tutte quelle immagini e figurazioni che noi abbozziamo nei sogni e al mattino cancelliamo per riprendere la nostra vita ordinaria. Ma cos’è la vita ordinaria se non un sistema di regole messo in atto per tacitare l’anima? Cos’è il nostro affaccendarci quotidiano se non un macchina micidiale che mettiamo in moto per non vedere nulla e non sentire nulla di quanto ci circonda e, circondandoci, ci inquieta? Siamo così estranei alle possibilità espressive della nostra anima, che non appena questa si mette a parlare, in quei momenti di incantamento da cui tutti si affrettano a risvegliarci, subito ci riprendiamo per il terrore di restare prigionieri del delirio? E allora è solo per chi non ha paura di perdersi nei propri deliri ed, entrandovi, vuole incominciare quel dialogo tra sé e le proprie impressioni deformate, sensazioni allucinate, germi di ideazione abortiti sul nascere, e poi, non si sa per quale incantesimo, risorti in forme strane e insospettate, che Marosia Castaldi scrive il suo romanzo di 720 pagine, come oggi non si usa più, con un “Indice” dai titoli quasi tutti uguali, come vogliono i tratti ossessivi della mente quando inutilmente tentano di controllare i deliri, per descrivere quel che succede in una notte, la notte della morte della madre, in un piccolo quartiere dove accadono le cose che accadono in tutti i quartieri, se non si hanno gli occhi di Marosia Castaldi che, da piccoli gesti e abituali situazioni, trae spunti per scandagliare tutti gli abissi dell’anima e le figurazioni che da quegli abissi nascono. Chi legge questo libro può avere l’impressione di entrare nel mondo della follia. E di fatto ci entra. Non la follia nota agli psichiatri che conoscono solo il deragliamento della ragione, ma la follia che “precede” la stessa distinzione che siamo soliti fare tra ragione e follia. Il luogo di questa follia è da rintracciare là dove la coscienza umana si è emancipata da quella condizione animale o divina che l’umanità ha sempre avvertito come suo fondo, e da cui, pur sapendosi in qualche modo uscita, ancora si difende temendone la sempre possibile irruzione. A conoscere questa follia non è la psicologia, la psichiatria o la psicoanalisi, ma la letteratura che, nell’edificare il cosmo della narrazione, il solo che gli uomini possono abitare, sa da quale fondo l’ha liberato e perciò non chiude l’abisso del caos, non ignora la terribile apertura verso la fonte opaca e buia che chiama in causa il fondamento stesso della razionalità, perché sa che è da quel mondo che vengono le parole che poi la narrazione ordina in maniera non oracolare e non enigmatica. L’inquietudine che genera la lettura di questo libro è la stessa che ci ha pervaso quando abbiamo assistito agli ultimi film di Pasolini: Porcile, Salò o le 120 giornate di Sodoma, dove la dissacrazione era la denuncia della perdita della dimensione tragica dell’uomo colto nel conflitto tra la radice antica del suo abitare e lo sradicamento, di cui non ha neppure consapevolezza. Con il suo romanzo, Marosia Castaldi ci porta in questo luogo, e chiede al lettore, a cui non aveva mai pensato durante la scrittura, di essere con lei nel giorno successivo a quella notte, perché quel giorno, come ogni giorno, sorge dall’insolito. E guai a chi, acquietato tra le solite cose, teme di gettare nell’insolito almeno uno sguardo.