di Ingeborg Bachmann
Non varcare le nostre labbra, parola che semini il drago.
È vero, l’aria è soffocante,
la luce schiuma di acidi e fermenti,
sulla palude nereggia un velo di zanzare.
Ama le bicchierate la cicuta.
È in mostra una pelle di gatto:
la serpe s’avventa soffiando, lo scorpione inizia la danza.
Non raggiungere le nostre orecchie,
fama dell’altrui colpa:
parola, muori nella palude
da cui la pozzanghera sgorga.
Parola, stai al nostro fianco
tenera di pazienza e d’impazienza.
Bisogna
che questa semina abbia fine!
Non domerà la bestia colui che ne imita il verso.
Chi rivela segreti d’alcova, rinunzia per sempre all’amore.
La parola bastarda serve al frizzo per immolare uno stolto.
Chi ti richiede un giudizio su questo straniero?
Se non richiesto lo formuli, prosegui tu il suo cammino
da una nottata all’altra con le sue piaghe ai piedi: va’! e non ritornare.
Parola, sii nostra, libera, chiara, bella.
Certo, dovrà avere fine ogni cautela.
(Il gambero si ritrae,
L’ala talpa dorme troppo,
l’acqua dolce dissolve
la calce, che pietre ha filato).
Vieni, benevolenza fatta di voci e d’aliti,
questa bocca fortifica
quando la sua fralezza
si inorridisce e inceppa.
Vieni e non ti negare.
poiché in conflitto siamo con tanto male.
Prima che sangue di drago protegga l’avversario
questa mano cadrà dentro il fuoco.
O mia parola, salvami!
(1953)
(in Poesie, di Ingeborg Bachmann, a cura di Teresa Mandalari, Guanda 1978)