di Silvia Acierno
Voilà qui je suis.
(Barbara Pravi)
Anche a me è capitato di recente di trovarmi nella parte scomoda di chi viene frainteso e guardato con sospetto. Eravamo con le mie bambine in una libreria e ragionavamo attorno ad una storia illustrata per bambini che avevano tirato fuori dallo scaffale delle letture consigliatissime, del perché il principe era una principessa; dell’aspetto volutamente ambiguo di una delle due principesse, né troppo femminile né troppo maschile, ma piuttosto un po’ maschile e un po’ femminile; del perché fosse poi sempre la solita storia di riscatto di una principessa, anche se stavolta ad aiutarla era un’altra principessa. Della vergogna che nessuno dovrebbe mai farti provare, del destino che non dovrebbe essere una pagina scritta, dell’amore e delle sue multiple forme e del rispetto che dovrebbe informare ogni amore. Soprattutto ragionavamo della confusione, sì, la gran confusione a cui una storia così esponeva loro e tutti gli altri ragazzi. Ma non è stato tutto questo ad attirare l’attenzione della coppia forse omosessuale, forse no che era seduta proprio accanto a noi; una di quelle coincidenze assurde, anche perché erano italiani come noi in un caffè libreria in cui tutti gli altri parlavano francese. Mi sono girata e li ho distinti solo quando ho captato quelle parole sdegnate che provenivano dalla loro direzione: «una di destra». Parole seguite alle mie con cui spiegavo alle ragazze proprio con le parole della filosofa Adriana Cavarero che esiste un dato biologico, che per nascita i sessi sono due, che ci sono casi di intersessualità, eccetera, eccetera. Giusto per fare un po’ di chiarezza nello sguardo sperduto e interrogativo delle bambine. Perché dire queste cose oggi è politicamente scorretto, peggio, è reazionario. Se gli avessi detto che sono piuttosto di sinistra, da una vita, non mi avrebbero creduto; se gli avessi detto che sono femminista, da una vita, mi avrebbero dato della “TERF”, femminista bacchettona e omofoba… meglio rimanere zitta, non dire niente. Del resto a me le etichette, le sovraidentità, gli schieramenti che ti collocano nettamente di qua o di là, non sono mai piaciuti. Situazione grottesca, piccolo fastidio per non aver dato sfogo alla mia impulsività, libro riposto nello scaffale e siamo andate via con una storia di fantasmi. Erano “i morti”, meglio conosciuti nel colonialismo linguistico angloamericano come Halloween.
Nel 2019 la filosofa e attivista americana Judith Butler scriveva tra le altre cose un articolo intitolato “Sex and Gender in Simone de Beauvoir’s Second Sex”. Il saggio di Cavarero e Guaraldo, Donna si nasce (e qualche volta lo si diventa) è anche una risposta alla posizione di Butler, distante da quella di Cavarero ma in dialogo serrato. Al rileggere il testo di Butler mi sento di affermare che in fondo il punto di partenza di Butler e Cavarero è lo stesso. Perché quel punto di partenza è insormontabile. Anche per la pensatrice americana, Beauvoir distingue chiaramente il “sesso” femminile, dato incontrovertibile, e quello che poi dopo di lei è stato chiamato “gender”, concetto introdotto dal pensiero anglosassone, dai gender studies, e usato oggi à tort et à travers [a proposito e a sproposito]. Il sesso è il dato anatomico, mentre il gender è il significato culturale che sesso e corpo femminile acquisiscono o piuttosto subiscono nel sistema androcentrico. Butler lo riassume con una espressione felice in cui c’è il corpo e quello che viene dopo: body’s acculturation [‘acculturazione del corpo’]. Il sesso anatomico (femmina/maschio) è il locus, il corpo in cui ci costruiamo come individui e in cui avviene anche la costruzione del genere che è un processo costante, discontinuo, casuale e volitivo di appropriazione, riappropriazione, interpretazione e reinterpretazione del nostro corpo e delle possibilità culturali (spesso limitanti, veri e propri tabù e restrizioni) che riceviamo. Il femminile, la femminilità (vergine, moglie, madre, ma con corpo ammiccante e desiderabile, puttana, traditrice, ecc.) è una manipolazione culturale del nostro corpo di donna; non esiste un comportamento “naturalmente” femminile (debole, instabile, bisognosa di protezione, ecc). Being female and being a woman are two different sorts of things1, scrive Butler. Come tale il genere o identità sessuale è innaturale, acquisito, immaginato, percepito (all gender is by definition unnatural2). Possiamo anche concedere a Butler che per divenire un certo genere non è necessario essere di un certo sesso.
Butler scrive: one is one’s body from the start, end only thereafter becomes one’s gender3! La stessa Butler scrive nero su bianco che the masculine pursuit of disembodiment is necessarily deceived because the body can never really be denied4! Il corpo sessuato sta lì, dall’inizio, anche per Butler. L’anatomia è un limite (o piuttosto una possibilità), una restrizione ma è anche il punto di partenza, inevitabile, semplice e necessario. Subito dopo però Butler si mangia la coda e continuare dicendo che questo punto di partenza sarebbe fittizio perché è anch’esso il frutto di quella attività volitiva costante di crearci e generarci, rinnovarci incessantemente. Né uovo né gallina.
Il sé è un’unità fragile che si proietta e desidera incessantemente ma a un certo punto di quello che è un difficile processo di accettazione bisogna però anche scegliere: quello che siamo sarà anche la somma degli atti che abbiamo compiuto. Sarà come ogni narrazione, anche la più “disordinata”: qualcosa di compatto. Che lo vogliamo oppure no, il divenire, la vita implica una progressione nelle scelte e nei ripensamenti, una sintesi, il capitolo successivo, perché il dinamismo continuo implica anche dispersione e instabilità; perché se stessimo a compiere sempre la stessa scelta rimarremmo impantanati, fermi nella coazione a ripetere sempre la scelta del nostro genere, della nostra identità sessuale (altro che fluidità!). Quanto possiamo divenire nella costruzione della nostra identità come persona sessuata? Forse è questa la domanda. Ma i limiti sono fuori moda.
Per Cavarero il sé alla nascita è un’unicità incarnata dunque sessuata, assolutamente irripetibile: l’insostituibile che permane nel tempo («ogni essere umano è chi nacque e vive finché muore») piuttosto che la molteplicità dei nostri frammenti. L’identità che si costruisce sul chi è anche desiderio e promessa. E la parola porta e veicola il desiderio di identità e di unità. A differenza della visione del post-strutturalismo e del post-femminismo in cui l’identità è una chimera, si confonde e si perde nel linguaggio, non esiste senza il linguaggio, un linguaggio che sta finendo per censurare piuttosto che portare il nostro desiderio di unicità.
Poi, sappiamo, Butler (e con lei il femminismo post-strutturalista) compiono un salto logico da quella premessa che è l’interpretazione legittima dell’affermazione di Beauvoir ad una conclusione che resta la legittima ipotesi di Butler. E la dislocazione di genere (quando il genere non coincide con il sesso anatomico, in caso di disforia) diventa una specie di regola, di percorso necessario per ognuno di noi, per ognuna di noi (In these moments of gender dislocation in which we realize that it is hardly necessary that we be the genders we have become, we confront the burden of choice intrinsic to living as a man or as a woman or some other gender identity, a freedom made burdensome trough social constraints5).
Beauvoir non affronta il problema del genere che vogliamo divenire (in uno spettro fluido di possibilità non binarie) in caso di “gender dislocation”. Ma solo quello essenziale per il femminismo di allora e di oggi dell’alienazione e frustrazione che la femminilità, intesa come quel modo di essere donna confezionato dalla cultura patriarcale, impone alle donne. A lei interessa che le donne possano trascendere non il loro corpo sessuato, ma la lettura che di quel corpo è stata data dal patriarcato come l’altro, come il secondo sesso, come quel corpo “naturalmente” limitato e contingente. Che l’anatomia possa non essere un limite alle possibilità del genere, che il corpo non sia un fenomeno naturale, ma solo occasionale, che il corpo puro e semplice non potrà mai essere trovato, è solo l’ipotesi di Butler, non di Beauvoir. Beauvoir si muove nell’idea che i sessi sono due e in nessun momento suggerisce la possibilità di altri generi, oltre al maschile e femminile.
Cavarero e Guaraldo restituiscono al dato anatomico il suo peso, la sua realtà e necessità. Nulla toglie che dopo il dato anatomico (due sessi, uno femminile e uno maschile, oltre ai casi di intersessualità e transessualità), il corpo femminile o maschile diventino anche il luogo della costruzione del genere e delle altre identità attraverso cui il sé (il “chi”) transita (facendosi “che cosa”). In fondo Cavarero già sosteneva nel suo saggio Tu che mi guardi, tu che mi racconti, che siamo identità narrabili, quindi interpretabili, relazionali, quindi esposte allo sguardo altrui e al racconto altrui, perciò sempre diverse, costantemente dislocate. L’unità della nostra identità non è una realtà sostanziale ma appartiene solo alla sfera del desiderio. Eppure, seguendo il pensiero assolutamente originale di Hannah Arendt, siamo «questo e non altro». Laddove Butler attribuisce una varietà incommensurabile al fittizio essere un genere e insiste sul dinamismo nel campo delle infinite interpretazioni culturali, Beauvoir vedeva invece proprio nell’interpretazione culturale dell’essere donna una specie di prigione, fissa, bloccata, confinata in una sola interpretazione. Quello che diventiamo, che diventa la donna, è proprio ciò che la limita quando quella costruzione identitaria passa attraverso il colino della cultura patriarcale e fallologocentrica.
In “Donna si nasce” c’è un grande desiderio di riportare il femminismo a casa, in una sua dimensione, di ridare a questo femminismo, inglobato quasi dal movimento LGBTQ+ e che questa dispersività e l’aggressività del transfemminismo sembrano rendere “obsoleto”, una sua autonomia, un suo senso proprio. Oggi ancora più necessario.
Ma soprattutto c’è un gesto, sicuramente filosofico, che è forse ancora più importante della tesi portata avanti dalle autrici. Cavarero e Guaraldo si rivolgono alle lettrici e identificano quella lettrice con: tu ragazza dei nostri giorni. Non è un vezzo stilistico, un trucco o un artificio. Ma il gesto filosofico e politico del dialogo. Un capitolo ulteriore di quel percorso filosofico che passa per Tu che mi guardi, tu che mi racconti, di una teoria empatica. Quell’idea forte di reciprocità secondo la quale il sé sarà narrato dall’altro, quell’altra necessaria. In cui l’io (che è quasi più individualista e onnipotente che nell’etica androcentrica, sganciato dalla natura, che tutto può fare e rifare) si aprirà finalmente al tu.
“Tu ragazza” è un gesto potente di responsabilità, che smette di fingere che le cose siano risolte (tanto per dirne una, la storia di Gisèle Pelicot è dei nostri giorni). “Tu ragazza” si rivolge alle nostre figlie. Per tutte le volte in cui tua figlia, i tuoi figli sono trascinati nel “gioco” dei ruoli, per tutte le volte in cui hanno visto la loro madre mal sopportare un retaggio di autorità e paternalismo. Per tutte le volte in cui l’hanno vista perdere il terreno sotto i piedi. Per tutte le volte in cui quella ragazza si identificherà con sua madre. Per tutte le volte in cui sarà esposta a messaggi contraddittori e spesso superficiali sul suo corpo.
Tu ragazza non omologarti, sii politicamente scorretta. Tu l’unica capace di un rovesciamento radicale di prospettiva, oltre la cultura e la controcultura, oltre il bianco e il nero. Tu, smarginati!
1«Essere una femmina ed essere una donna sono due cose diverse.»
2«Tutti i generi sono innaturali per definizione.»
3«Una all’inizio è il proprio corpo, solo dopo diventa il proprio genere.»
4La ricerca maschile i disincarnazione viene necessariamente delusa perché il corpo non può mai essere veramente negato.»
5«In quei momenti di “dislocazione” in cui realizziamo che difficilmente ci serve essere il genere che siamo diventati, ci confrontiamo con il peso della scelta intrinseco al vivere come uomo o come donna o come qualsiasi altra identità di genere; una libertà resa gravosa dai vincoli sociali.»
(www.libreriadelledonne.it, 14 dicembre 2024)