di Vittoria Martinetto*
Clarice Lispector, La città assediata, Adelphi 2024
In un’intervista concessa a Julio Lerner nel 1977, Clarice Lispector definiva la propria scrittura «caotica, intensa, completamente fuori dalla realtà della vita», sottolineando di avere iniziato a scrivere poco dopo aver imparato a leggere, già da bambina. Forse per questo, la scrittrice mal sopportava certe analogie che la critica soleva instaurare, quale quella con l’esistenzialismo sartriano. Dicendosi timida e coraggiosa al contempo, puntualizzava: «Non sono una professionista: scrivo quando voglio. Sono una dilettante e ci tengo a continuare a esserlo», spiegando che questo le permetteva di mantenere la propria libertà. Sentiva i periodi fra la stesura di un romanzo e un altro come momenti di vuoto insopportabile: «Quando non scrivo sono morta», dichiarava con la sua congenita erre moscia che si adattava alla perfezione all’accento carioca, il bellissimo volto slavo, serio, le palpebre sottolineate dall’eyeliner come appaiono in tutte le immagini – fotografie in bianco e nero irresistibili per le copertine dei suoi libri –, palpebre che continuamente chiudeva quasi per raccogliere frammenti dal proprio mondo interiore e restituirli, uscendone esausta, all’intervistatore. Si ha la sensazione, guardandola, che la necessità di scrivere sia per lei stessa un mistero, che non sente il bisogno di sciogliere. Sempre nel corso di quell’intervista, parlando dei bambini per i quali aveva scritto storie, Lispector definiva gli adulti tristi e solitari, ma alla domanda di quando e perché ciò accadesse nella vita, si mostrava perentoria ed evasiva: «È un segreto, se non le spiace preferisco non rispondere. Sono triste perché sono stanca». La fine dell’intervista è impressionante: «In questo momento sono morta, ma rinascerò», dice riferendosi a quando avrebbe ripreso a scrivere. Quello stesso anno, però, Clarice Lispector muore davvero, di cancro, all’età di cinquantasette anni.
Nata in Ucraina nel 1920 da una famiglia ebrea costretta a emigrare per via delle persecuzioni razziali e stabilitasi in Brasile, Lispector ha sempre considerato il paese latinoamericano la sua vera patria dal momento che della Russia non aveva mai, letteralmente, calpestato il suolo, essendone venuta via in braccio, quando aveva due mesi. La scrittrice è, di fatto, una delle più grandi, se non la più grande scrittrice brasiliana del XX secolo. Malgrado l’ermetismo poetico della sua prosa abitata da epifanie e folgorazioni con venature di “misticismo laico” come nell’indimenticabile La passione secondo G.H. (1964), questa autrice «schiva e insieme popolare, anti-letteraria e insieme raffinatissima» come l’ha definita Rita Desti, ha conquistato un vasto pubblico proprio grazie a una voce talmente originale da renderla unica. Scoperta, per così dire, in Italia negli anni ottanta dalla piccola raffinata casa editrice torinese La Rosa, l’opera di Lispector ha suscitato l’interesse di editori quali Feltrinelli e Sellerio, approdando ad Adelphi che ne ha ripreso tre romanzi (Vicino al cuore selvaggio, 1987; Acqua viva, 2017; Il lampadario, 2022) e pubblicato per la prima volta nel 2019 Un soffio di vita (cfr. “L’Indice” 2019, n. 6) e ora La città assediata, scritto a Berna nel 1949 e terzo romanzo dell’autrice. Ancora una volta, la traduzione di questa lingua affascinante e difficile che si misura di continuo con l’indicibile è stata affidata all’impeccabile penna di Roberto Francavilla qui in collaborazione con Elena Manzato.
La città assediata è ambientato durante gli anni venti nel sobborgo di São Geraldo dov’è nata e vive la protagonista Lucrécia Neves, giovane donna che pur non essendo bella è dotata di un «eccesso di bellezza che non si trova nelle persone belle», la quale – come tutte le eroine di Lispector – è animata da una ricerca, quella di dare una forma al mondo che la circonda, divisa fra il desiderio romantico della metropoli, con i suoi teatri e giardini, e l’identificazione con il proprio borgo natale ai margini della modernità, che in qualche modo rimane indelebilmente associato a lei, diventando esso stesso un personaggio che prende forma specchiato nel suo sguardo inaugurale: «La ragazza non possedeva immaginazione bensì un’attenta realtà delle cose che la rendeva quasi sonnambula; aveva bisogno di cose perché queste esistessero». In preda a inquietudini senza nome che non è in grado di esprimere nella sua incantata ottusità, Lucrécia non è solo assediata dal proprio contesto, ma da sé stessa, è lei La città assediata. Clarice Lispector sosteneva che fosse stato il suo libro più difficile da scrivere. Narrato in terza persona e sviluppato in dodici capitoli secondo una cronologia lineare, segue l’itinerario di andata e ritorno della protagonista, fra città e campagna, che la vede transitare per diverse figure maschili: il tenente Felipe, il cui fascino risiede nella divisa ma disprezza São Geraldo e quindi la stessa Lucrécia; Perceu Maria tanto bello quanto vuoto; e il prospero commerciante Mateus Correia, che sposa realizzando il sogno della grande città subito frustrato dalle mansioni di casalinga e moglie. Tornata in paese dopo la vedovanza, troverà che anche São Geraldo ha subito un’inesorabile e deludente metamorfosi in nome della modernità. Focosa come un cavallo e irraggiungibile come una statua, sempre in bilico fra equilibrio e squilibrio, Lucrécia Neves si aggiunge alle tante memorabili figure femminili della narrativa di Lispector, anche qui in virtù della scrittura che ce la restituisce facendosi ancora una volta essa stessa protagonista indiscussa del romanzo. È forse semplicistico e livellante, come ricordava Luciana Stegagno Picchio, dire che un autore scrive sempre lo stesso libro, ma per Lispector la sentenza anziché riduttiva diventa illuminante: anche qui l’autrice sembra infatti scrivere con il corpo anziché con il cervello, e con il corpo e non solo col cervello va ricevuta La città assediata.
(“L’Indice dei libri”, ottobre 2024)
(*) Vittoria Martinetto insegna lingua e letterature ispanoamericane all’Università di Torino.