Natalia Robusti
“Due mondi – e io vengo dall’altro” – scrive Cristina Campo.
Come se i mondi evocati fossero ben più di due, e uno di questi fosse tutto suo; il mondo terzo di colei che guarda l’uno e l’altro con perfetta, eguale, iper-reale limpidezza di sguardo. È il mondo di Cristina (Vittoria Guerrini il suo vero nome) che scrive con perfetta, unica – quasi sovrannaturale – limpidezza di voce.
D’altra parte è lei stessa, nel prologo al suo libro Gli imperdonabili, edito da Adelphi, a scriverlo: “Pure, con diversi pretesti e sotto vari colori, mi sembra che il libro ripeta da un capo all’altro un unico discorso (…) un piccolo tentativo di dissidenza dal gioco delle forze, ‘una professione di incredulità nell’onnipotenza del visibile’“.
E dopo tanti anni, anni in cui il visibile è divenuto onnipresente oltre che onnipotente, provo lo stesso conforto nel leggere questo libro, o meglio, nell’averlo tra le mani; perché io, in questo mondo, non ho mai finito di leggerlo.
In tutto avrò letto poco più della metà delle sue pagine, a caso qua e là. E’ però consumato come se l’avessi fatto decine di volte, ed è spesso sottolineato.
Ogni tanto ci riprovo: apro una pagina a caso e ogni volta rimango incollata alle prime frasi lette, incapace di separarmene, di avanzare e leggere oltre.
Rimango ancorata a quello che dice e a come lo scrive: “Non è il sogno a fermarci e tanto meno il risveglio; è il ‘non licet’ della pienezza sovrabbondante, la quasi mortale felicità dello sguardo senza possesso.”
La sensazione è che proprio lì, dove io arrivo con il fiato corto, come al termine di una salita, lì dove poteva esserci una pausa, una sosta se non proprio la conclusione di qualcosa, da quel punto preciso Cristina Campo parte, inizia, e lo fa con una rapidità, accuratezza e determinazione inesorabili.
E’ una dimensione verticale in cui anziché alla caduta nell’abisso poetico (mi viene in mente solo un’altra voce capace di questo effetto: Marina Cvetaeva) la parola procede a un’ascesa repentina, quasi istantanea: due parole, tre al massimo.
La cosa stupefacente è che non si tratta di versi, aforismi o poesie, ma di brani in prosa; a volte veri e propri saggi brevi.
C’è una furia fanciullesca tenuta con una briglia cortissima, nelle sue parole, una fede incrollabile eppure capace di tentennare al minimo scarto incontrato, non certo per cambiare direzione, piuttosto per fissarla in maniera più nitida: “niente di più immobile di una freccia in volo.”
Il risultato è che a ogni possibile intoppo, a ogni ostacolo, la parola e il pensiero che si muovono all’interno del testo si fanno più affilati, dettagliati e precisi. Direi acuminati.
Ed è ancora lei, nel citare un poeta di cui non fa il nome, a illuminare sotto un cono di luce bianca, abbagliante, il tentativo incessante di una vita dedicata a una sola, irraggiungibile meta: “Sottrarsi al gioco delle circostanze affinché nulla ci raggiunga, fuorché l’inevitabile.”
Le circostanze sono vuoto scialacquio di tempo, inutile sotterfugio che a nulla conduce. Inevitabile è la perdita. Impossibile – sembra – sottrarsi ad essa. Conviene dunque, in attesa che ci raggiunga, concentrarsi su questo e questo soltanto.
Cristina Campo parte da qui.
Oltrepassa le leggi della necessità, dell’ovvietà e anche della ragione combattendole sul loro stesso piano, sull’identico loro terreno, con una serie inarrestabile di parole che, come postulati matematici, avanzano in funzione della proprietà transitiva, ed enunciano una sola, ipnotica e conclusiva formula: è dato ciò che è dato ed è aggiunto ciò che è tolto.
La bellezza – l’amore, la quiete, la passione – è guardata, abbracciata e lasciata due volte, al di là di ogni ragionevole dubbio: nell’attimo della sua apparizione e nell’attimo della sua perdita: “Sono, in realtà, occhi eroici. Hanno guardato la bellezza e non ne sono fuggiti. Hanno riconosciuto la sua perdita sulla terra, e in grazia di ciò l’hanno guadagnata alla mente.”
E se in questo nucleo sta la sua presunta, imperdonabile e proclamata colpa – poiché per non essere perdonati occorre innanzitutto essere colpevoli di qualcosa – l’accusa si ribalta in difesa.
In difesa degli occhi, ancor prima che della voce; dei suoi occhi di bambina sana e intatta, che guardava dalla finestra di casa decine di persone storpiate dalla malattia, ospiti del reparto di ortopedia dell’Ospedale Rizzoli di Bologna in cui la sua famiglia viveva; dei suoi occhi di bambina intatta eppure ammalata, sin dal grembo materno, per un grave difetto cardiaco.
In difesa – soprattutto – di quanto i suoi occhi sapevano e potevano vedere: quel “guadagno” della bellezza su questa terra che, a prescindere da qualsiasi perdita, subìta o prossima, è in ogni modo – in ogni mondo – grazia, “pienezza sovrabbondante”, possibilità di perdono… “La bellezza, innanzi tutto (…) l’animo grande che ne è radice e l’umor lieto.”
La potenza della bellezza, dunque, è affiancata alla bellezza della bontà; e questo in una donna intransigente (si capisce bene in certe parti del libro) e immagino anche sprezzante, che si esprimeva con parole perfette e compiute, comunque gentili e aggraziate, attenta com’era, nel modulare le proprie parole, a un uso limitato della forza, là dove se ne avverte una notevole, determinante e consistente presenza.
Era difatti – come ho letto nella sua recente biografia – una donna per molti aspetti tormentata, che sapeva tuttavia restare calma nel momento della calamità…
E non faccio fatica a crederlo: Finalmente il ciclone! – credo si sarà detta, perchè lei, consapevole, ne era l’occhio.
Inutile sottolineare ulteriormente che tutta una vita così vissuta non poteva che portare le sue conseguenze, ma è impossibile ignorare ciò che nel leggere questo libro si sente in sottofondo tra le pagine: il ritmo inarrestabile e tachicardico del suo cuore.
Il microrombo – labile tuono in lontananza – di un respiro che stenta a stare dietro al passo, e il passo che invece di fermarsi in quel punto, in quel luogo a maggior ragione di approdo, non si ferma, ma da lì spicca un balzo, incurante delle ammonizioni.
In nome della legge prima, sia di Cristina che di Vittoria: “che altro veramente esiste in questo mondo se non ciò che non è di questo mondo?“