di Bianca Terraciano
Umanità, identità e dignità sono motivi ridondanti nell’opera di Han Kang, scrittrice nata nel 1970, prima sudcoreana – e diciottesima donna nella storia – a vincere il premio Nobel per la letteratura, assegnatole il 10 ottobre 2024. La sua opera è composta da otto romanzi, una raccolta di poesie, e alcuni racconti, più un’installazione di videoarte. Kang ha come caratteristica peculiare uno sguardo penetrante sul suo tempo e la sua cultura di appartenenza, capace di scendere in profondità per poi risalire all’origine dei danneggiamenti che innescano cause e effetti delle sue storie. Il suo stile narrativo riesce a suscitare impressioni forti in chi legge, tali da radicarsi nell’animo per un tempo superiore a quello di lettura. La natura di questo radicamento si rinviene nei luoghi che caratterizzano la vita di Kang sin dalla nascita, cioè Gwangju e il villaggio di Suyu-ri, che riflettono gli eventi principali della Corea del Sud a partire dalla seconda metà del Novecento. La città di Gwangju, luogo di nascita di Kang, è lo scenario di una sanguinosissima rivolta studentesca che ha mietuto più di 2000 vittime, anche se le cronache governative dell’epoca ne riportano solo 150. La comunità studentesca insorge il 18 maggio 1980, coinvolgendo tutta la città per ben dieci giorni, ribellandosi al direttore dei servizi segreti Chun Doo-hwan che solo il giorno prima aveva dichiarato lo stato d’assedio in Corea del Sud, sciogliendo il Parlamento e chiudendo le Università. Chun, insieme ad altri due generali dell’esercito, si era impadronito del potere conquistato da pochi giorni dal neopresidente Choe Kyu-hah, successore del generale Park Chung-hee, attuatore dello Yusin, dittatore della Corea del Sud dal 1963 al 1979 e padre della presidente Park Geun-hye, a lungo incarcerata per corruzione e abuso di potere, poi libera dopo il perdono del presidente Moon Jae-in ottenuto a fine 2021. Chun avrebbe ricoperto lo stesso ruolo di Park dal 1980 al 1988. Per maggiori approfondimenti rimando all’ottimo Storia della Corea: Dalle origini ai giorni nostri di Maurizio Riotto (Bompiani 2005). Proprio nel 1980 Kang si trasferisce a Suyu-ri, a nord di Seoul, luogo al confine tra campagna e città, che da ri – villaggio – passa a dong – quartiere – inglobato di diritto dall’urbanizzazione velocissima e dilagante della capitale sudcoreana. Così veloce che le fogne di Seoul ancora oggi non reggono lo smaltimento della carta igienica nei WC.
Mentre scrivo, la bio sul sito ufficiale di Han Kang non è stata ancora aggiornata: non ha ancora vinto il premio Nobel, sono citati svariati riconoscimenti internazionali. In Italia i romanzi di Kang sono stati tradotti dall’inglese, questione che, così come per i sottotitoli o il doppiaggio delle serie televisive coreane, molto spesso priva l’esperienza di fruizione di alcuni importanti significati e modi di dire pertinenti alla coreanità della scrittrice. Non abbiamo accesso a tutti i titoli pubblicati, ma a una selezione – edita da Adelphi – di quelli che sono considerati i più grandi successi della scrittrice, a partire da La vegetariana (2017), inserito dal New York Times tra i 100 migliori libri degli ultimi venticinque anni, seguito poi da L’ora di greco (2011), Atti umani (2014), e dalla raccolta di due racconti Convalescenza distribuita dal 2019 (le date riportate per i romanzi riguardano l’uscita in Corea del Sud).
Nei racconti Convalescenza e Il frutto della mia donna sono condensate le linee narrative delle sue maggiori opere, dove lutto e perdita si intersecano con salute mentale e fisica, agenti corrosivi del corpo umano che in realtà assorbe, impotente, lo stato generale della società. Kang fa pronunciare alla protagonista femminile di Il frutto della mia donna delle parole molto significative: «Questo paese è marcio dentro!», «Qui non può crescere niente, non lo vedi? Non intrappolato in questo… in questo posto soffocante e assordante!». La donna è nel bel mezzo della sua metamorfosi in vegetale, annunciata dalla comparsa di lividi azzurrini sulla sua pelle, che in La vegetariana si convertono nella macchia mongolica sulle natiche della protagonista Yeong-hye, un “ornamento” naturale che triggera le fantasie artistico-erotiche del cognato, poi soddisfatte dalla realizzazione di un body painting incentrato su fiori dipinti attorno a quel “petalo” azzurro. Yeong-hye prima rifiuta la carne e poi i vestiti, in un atto di ribellione contro le aspettative sociali e la sua disconnessione dalla realtà circostante. Attraverso i cambiamenti nell’abbigliamento di Yeong-hye, il romanzo riflette la sua evoluzione interiore e il suo distacco dalla società. I vestiti diventano un simbolo potente della tensione tra il desiderio di libertà individuale e le pressioni conformiste della cultura di appartenenza.
Gli abiti ordinari e conformisti da carnivora, semplici e funzionali, riflettono il malessere della corruzione del corpo in particolar modo per quanto concerne le sue semplici scarpe nere, tra le più banali mai viste. Il vestirsi come termometro della salute fisica e mentale ritorna anche in Convalescenza, in cui la protagonista prima della morte della sorella indossava «vestiti anticonformisti dai colori vivaci» e «scarpe bianche e gialle», mentre al tempo della narrazione, afflitta da una caviglia in cancrena e uno stato di evidente depressione indossa solo il nero. Questo colore ritorna anche in L’ora di greco come carattere distintivo della «tenuta da veglia funebre» della protagonista ripiombata in uno stato di completa afonia per la seconda volta, dopo la prima esperienza di silenzio forzato avvenuta al compimento dei sedici anni «quando, di colpo, il linguaggio che l’aveva imprigionata e torturata come un vestito intessuto di migliaia di spilli era sparito». L’elemento di fastidio esplicitato con il ricorso a una metafora vestimentaria non è la voce, ma la facoltà di comunicare in una società che sostanzialmente silenzia qualsiasi parere divergente dalla massa. Il far coincidere in tutte le narrazioni i cambiamenti di visione del mondo, di salute e abbigliamento sottolinea come la moda e i vestiti siano, nella visione di Kang, strumenti di controllo sociale e di giudizio. Convalescenza viene pubblicato in Corea nel 2013, l’anno in cui Park Geun-hye diventa presidente. In un’intervista di Mark Reynolds in lingua inglese dal titolo “Han Kang: To be Human”, pubblicata sul sito Bookanista, Kang commenta la presidenza di Park come un momento di sofferenza per parecchie persone, che l’ha portata a rivalutare l’incidente di Gwangju per trovare una risposta al quesito “cosa ci rende umani?”. Questa è la genesi di Atti umani, il romanzo in cui Kang ripercorre la rivolta studentesca attraverso gli occhi di Dong-ho, un ragazzo che classifica oggetti banali del quotidiano come accessori e indumenti per riconoscere le vittime e dar loro giusta sepoltura, nella speranza di trovare i corpi della sorella e di un amico. Capi e oggetti sono elementi reali, concreti, che possono consumarsi, ma non essere trasformati dalla mala-informazione dei poteri dominanti.
In Atti umani Kang fa una metariflessione sul ruolo di chi riporta il suo punto di vista e sullo statuto intersoggettivo, facendo capire che il suo mestiere di scrivere è un modo di connettere chi legge all’evento, così come accade nella relazione di connessione madre-figlia durante la gestazione: si è avvolti da un mondo dove si assorbono e poi si rielaborano i pensieri dell’istanza autoriale. E qui si arriva al romanzo non ancora pubblicato in Italia, il penultimo che precede I Do Not Bid Farewell (2021), The White Book (2016), commentato dall’autrice nel 2017 in un’intervista a The Guardian.
Qui spiega che la litania “non morire” presente in Atti umani risale alla sua gestazione, confermando la visione epigenetica sposata dalla comunità scientifica relativa alla formazione del carattere e alla comparsa di eventuali scompensi. La madre di Kang, prima di partorire lei e suo fratello, ha perso ben due figli, di cui sua sorella morta due ore dopo la nascita, la cui storia è raccontata in The White Book. Durante la gravidanza che avrebbe poi dato alla luce Han Kang, la madre era in pessime condizioni di salute e ha pensato più volte all’aborto, poi ha cambiato idea dopo che ha sentito il feto calciare forte. Kang però è convinta che quel malessere generale abbia condizionato la sua visione del mondo, così come emicranie debilitanti, il cui dolore lancinante ha profondamente plasmato la sua comprensione del male di vivere. Kang è maestra di “passioni tristi” – qualsiasi sia oggi la loro accezione – per cui crea delle immagini che si abbarbicano nell’animo come piante rampicanti, radicate in rabbia e mestizia, come si legge in Il frutto della mia donna.
Questo passaggio mi ha ricordato il componimento del poeta nordcoreano Cho Sŏnggwan, dal titolo Chŏju (‘Maledizione’), riportato da Riotto:
Fiori, non sbocciate!
Uccelli, non cantate!
Prima che sulla Terra svanisca per sempre l’ombra dello Yusin,
Che come prezzo riceve il sangue del popolo, a fiumi.
Prima di dare la morte a te, farabutto, cento e mille volte!
Oh, inestinguibile rabbia!
Oh, eterna maledizione!
Il Nobel di Kang dimostra la capacità dei sudcoreani di provare passioni collettive, comunitarie, che oggi affascinano il mondo intero in tutte le loro manifestazioni, auliche e pop.
(doppiozero.com., 11 ottobre 2024)