17 Settembre 2024
il manifesto

Il gelso di Gerusalemme. memoria di una presenza silenziosa

di Chiara Cruciati


C’è sempre un albero. Nei ricordi e nei racconti di chi giunge nel Levante c’è sempre un albero. Spesso più di uno. A volte non è un albero, è un arbusto o un campo coltivato. Un essere vivente inanimato – i nonumani li chiama Paola Caridi – fa sempre da sfondo a una narrazione, un viaggio, un’avventura, una scoperta. Da sfondo o, ancora più spesso, da protagonista: che sia dove ha le sue radici, o dentro una cucina dove i suoi frutti si preparano a far danzare il palato, nell’esplosione di un sapore insolito, ma familiare.

C’è sempre un albero, e stupisce non averci pensato prima. C’è quando in un angolo di Palestina ci si sente a casa – «sembra la Puglia», «sembra l’Umbria» – o quando la prima volta si resta a bocca aperta perché il Levante è lì, a due passi, appena al di là del Mediterraneo, eppure l’immaginario europeo è irragionevolmente piatto e banale: deserto, sabbia, rocce, venti caldi.

E invece no, in un fazzoletto di terra convivono e si danno il cambio tanti habitat diversi, tante biodiversità, dal mare alla collina, dal deserto alle foreste del nord.

L’AMBIENTE non è uno sfondo, o una coreografia. È parte integrante delle storie e della storia. E allora leggereIl gelso di Gerusalemme. L’altra storia raccontata dagli alberi significa davvero addentrarsi in un manifesto di botanica politica. Scritto dalla giornalista e autrice Paola Caridi, edito da Feltrinelli (pp. 160, euro 17), ricorre ai ricordi personali e alla leggenda, agli archivi e all’attualità per provare a raccontare la storia del Medio Oriente dal punto di vista di chi c’è e c’è sempre stato, silenzioso ma inevitabile, sfruttato, servito, amato o perduto.

Nei complessi equilibri regionali la flora ha un ruolo, anzi ne ha tanti: strumento di propaganda sionista agli inizi del Novecento (il deserto da far fiorire), ancora a cui aggrapparsi per mantenere un legame con la propria terra (le arance di Giaffa nell’immaginario dei rifugiati palestinesi e l’appropriazione successiva dello Stato di Israele, a dire «noi possediamo questa terra»), bacino di sfruttamento del colonialismo europeo (i gelsi libanesi e la catastrofe annunciata), alleato inconsapevole della rimozione (i pini importati dall’Europa dal Jewish National Fund per assecondare il gusto del nuovo arrivato e occultare il peccato originale, la distruzione dei villaggi palestinesi).

Nel caso palestinese è la memoria di una presenza, lo è la flora in sé ma lo è anche il modo in cui si è intrecciata alle vite delle persone, fin dall’antichità assecondata perché fornisse l’opulenza dei suoi frutti. La rete idrica di Battir, meritevole del riconoscimento dell’Unesco, sta là a testimoniare l’equilibrio con la terra, come i giardini in miniatura che spuntano sui terrazzi nelle viscere dei campi profughi stanno a testimoniare il sollievo antico di uno spazio verde, ampio e senza confini.

CARIDI, profonda conoscitrice della regione, dove ha vissuto per anni, ci regala una piccola perla, inusuale e inattesa, un viaggio storico e politico dalle tinte fosche ma che non tace la dolcezza: la bellezza che emerge dalle pagine, il colore e il sapore del nonumano che è sempre lì, presente. Testimone silenzioso o quieto alleato, quando segnala la vita che fu. Come i fichi d’india: vecchie linee di confine, continuano a crescere nei villaggi palestinesi svuotati con la Nakba e guidano alla scoperta dei resti di case e piazze. O come i sicomori alla cui ombra dolce tante storie sono state narrate e trasmesse; o lo za’atar, il timo della tradizione culinaria, la cui raccolta è una sfida ai divieti posti dalle autorità israeliane, perché a volte basta un sapore o un odore per sentirsi a casa propria.

Il libro di Paola Caridi è un atto politico in un periodo di buio della ragione, una sfida al colonialismo che fu e che è, che come Israele modifica i luoghi per piegarli alla propria immagine o che come quello europeo dei secoli scorsi impone monocolture feroci o si impossessa della terra battezzando a proprio gusto i nonumani. Come se un nome non ce l’avessero già. Sono parte della famiglia.


(il manifesto, 17 settembre 2024)

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