di Vita Cosentino
Sono contenta di presentare L’Economia è cura di Ina Praetorius in un luogo storico di Milano, come è la Casa della cultura, perché penso che le riflessioni teoriche e politiche di lei ci possono veramente aiutare in questo momento di forte disorientamento, con il pianeta vicino al collasso e una transizione inevitabile verso qualcosa che ancora non conosciamo. La crisi ambientale, infatti, è sempre presente al suo pensiero, anche quando parla di economia o di teologia o di altro ancora.
Il rapporto con la libreria delle donne di Milano è di vecchia data ed è un rapporto speciale – anche se a distanza – di scambio politico e teorico. La rivista Via Dogana è stata la prima ad introdurla in Italia nel 2002, e in seguito le ha dedicato un quaderno, Penelope a Davos (2011). Per parte sua Praetorius nel saggio Ripensare tutto fin dall’inizio, a cominciare dal quotidiano dice di essere stata “ispirata” da quelle che nel suo ambiente vengono chiamate “le italiane”. «Ho appreso da loro – dice – che è possibile e necessario passare quella soglia, che sembrava invalicabile, dell’ordine patriarcale per approdare a un nuovo inizio del pensiero» (in Il pensiero dell’esperienza, 2008, p. 72).
Oggi possiamo constatare, discutendo questa sua opera, che quel “nuovo inizio del pensiero” è andato molto avanti e siamo noi qui in Italia a imparare da lei.
Con Adriana Maestro ci siamo divise i temi: lei, che ha tradotto, curato e introdotto ottimamente il volume, vi ha illustrato la tesi principale del libro; io mi sono riproposta di trattare due elementi che definirei di sfondo.
Il senso e la generatività di una postura post-patriarcale.
Praetorius in ogni occasione si definisce una pensatrice post-patriarcale e il tema di un nuovo inizio è ricorrente nei suoi scritti, perché – come dice – ha varcato una soglia e si trova dall’altra parte. Ha acquisito distanza e punto di vista e non è invischiata in una posizione contro che, come si sa, in qualche modo partecipa sempre di ciò a cui si oppone. La sua personale posizione offre invece la possibilità di una diversa dislocazione mentale, pone in un’altra prospettiva.
Ora come questa postura post-patriarcale può riorientarci per affrontare il presente?
Luca Mercalli, in un recente articolo, fa notare che siamo in grado di pensare alla fine della vita sul pianeta, ma non siamo in grado di pensare alla fine del capitalismo (AREL La rivista 3/2019). Quando l’ho letto, l’ho sentito subito vero e da approfondire perché si sta rendendo sempre più evidente – ne abbiamo parlato nel numero di Via Dogana 3 online, Crisi ambientale: i nodi al pettine (dic. 2019) – che non ci sarà un’effettiva transizione ecologica se nello stesso tempo non si andrà oltre il capitalismo.
Ho trovato una credibile spiegazione di quella difficoltà nelle riflessioni di Guido Viale. Sia in un articolo del Manifesto (La radice del patriarcato e il concetto di proprietà privata, 20/11/2018) che nel suo libro Slessico familiare (2017), mette in evidenza il nesso indissolubile tra il patriarcato e tutte le realtà pervasive come proprietà, dominio, sfruttamento, e mostra come il patriarcato sia il fondamento «di tutte le forme che quelle realtà hanno assunto nelle diverse fasi della storia, compreso il capitalismo finanziario, estrattivo e predatorio attuale». La radice del patriarcato è la proprietà dell’uomo sulla donna. Questo è il modello di tutte le altre forme di proprietà, nel succedersi delle civiltà, come la proprietà degli schiavi, dei campi, dei mezzi di produzione, della conoscenza. Secondo Viale queste radici sono molto profonde e impediscono di prospettare e praticare «una vera alternativa a una società il cui fine ultimo è l’acquisizione di reddito, ricchezza o potere, come condizioni irrinunciabili per conservare in qualche forma una proprietà degli uomini sulle donne.»
Le parole di Viale rappresentano un’importante presa di coscienza maschile perché dicono esplicitamente che, soprattutto nelle menti maschili, questo è il segreto impedimento a pensare la fine del capitalismo. Ne consegue che sradicare quelle radici è anche il possibile punto di leva per il cambiamento. Da qui l’importanza di tenere in conto le idee di pensatrici post-patriarcali come Ina Praetorius e di assumere la sua postura che è generativa di pensiero e di pratiche. Secondo lei il pensiero post-patriarcale comincia «nel momento in cui il lavoro costruttivo di dare forma a un nuovo ordine simbolico diventa più importante della critica», e si smette «di sentirsi in primo luogo vittime del sistema contro il quale scagliarsi con furia ma, tutto sommato, senza alcuna speranza di cambiarlo» (in Penelope a Davos, p. 41).
Quando si tratta di una pensatrice dichiaratamente femminista ci sono almeno due ostacoli interiori: che sia una cosa solo per donne; che siano idee e proposte che escludono in qualche modo gli uomini.
Su questo Praetorius è molto chiara e nel saggio Penelope a Davos si prende la briga di rivisitare con occhi nuovi la figura di Penelope togliendola da quell’immagine di moglie esemplare, che aspetta il marito in obbedienza a una norma patriarcale. La rappresenta come una donna intelligente e scaltra che aspetta Ulisse «perché ha buoni motivi di nutrire fiducia in quell’uomo». Penelope ha sì la stanza della tessitura in cui tesse e disfa e parla con le altre donne, ma è in attesa di qualcosa che succeda fuori dalla stanza.
La pensatrice post-patriarcale sa che un nuovo inizio è possibile solo se riguarda entrambi i sessi. Per questo dice: «Sappiamo infatti, che non è possibile dare forma al nuovo ordine senza che anche l’altro sesso desideri un futuro diverso e si trasformi per amore del mondo, da guerriero assetato di potere in qualcosa di nuovo. In che cosa? È ciò che vogliamo sapere, noi tessitrici di oggi, come voleva saperlo Penelope» (p. 68).
L’immaginario e le modalità del cambiamento
Il cambiamento radicale immaginato da Ina Praetorius è profondamente diverso da come è stato pensato finora secondo lo schema dell’evento eccezionale – che sia rivoluzione o crollo – che mette fine a un certo ordine a cui segue l’instautazione di un nuovo ordine.
Ne parla esplicitamente nel saggio Dalla parità al dare forma al mondo quando dice: «Il concetto di trasformazione esprime a mio parere nel modo migliore che cosa sta a cuore alla maggior parte delle femministe. Soltanto poche desiderano una rivoluzione secondo l’accezione comune del termine. Noi non vogliamo violenza né spargimento di sangue, perché amiamo troppo la vita reale nel mondo» (in Penelope a Davos, p.34).
Io condivido in pieno la sua posizione, essendo io stessa arrivata a un’intuizione simile quando ho proposto sulle pagine di Via Dogana di pensare il cambiamento come metamorfosi (Che cosa tenere che cosa buttare, in Via Dogana n. 103, dic. 2012).
Praetorius ha in mente una modalità differente di cambiamento e per articolare il suo ragionamento riprende la teoria del cambio di paradigma introdotta da Thomas Kuhn nel suo libro La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1969). Nel volume che presentiamo, Praetorius vi fa riferimento sia nell’introduzione che nella sezione intitolata Dal post-dicotomico Durcheinander a un paradigma differente.
Ho ripreso in mano la teoria di Kuhn e secondo lui le rivoluzioni scientifiche «si considerano come quegli episodi di sviluppo non cumulativi sui quali un vecchio paradigma viene rimpiazzato completamente o in parte da uno nuovo e incompatibile»(p119). Sono precedute da una sensazione crescente di cattivo funzionamento che porta a una crisi. Si arriva a un punto in cui “le anomalie” (cioè i problemi non risolti) si presentano all’interno del paradigma funzionante fino a quel momento, rendendo necessaria la formulazione di nuovi assunti che superino le possibilità contenute nel paradigma corrente.
Questa è in estrema sintesi la teoria del cambio di paradigma in Kuhn e la grande novità di questa strada per il cambiamento è rappresentata dal fatto che un paradigma cambia dall’interno e non è un’idea decisa a tavolino da qualcuno. Per l’autore le rivoluzioni scientifiche modificano il concetto che si ha del mondo e l’accoglienza di un nuovo paradigma «spesso richiede una nuova definizione di tutta la scienza corrispondente». (p. 132)
È a partire da questa idea del cambiamento che Praetorius affronta la scienza economica, che è oramai il fondamento delle nostre società. Parte dall’anomalia crescente che è sotto gli occhi di tutti. Mostra infatti come l’economia – che si è proposta come scopo di «soddisfare il bisogno umano di preservare la vita e la qualità della vita» – perde sistematicamente di vista la metà di quello che essa stessa ha definito il proprio oggetto di ricerca, quando ruota ossessivamente intorno al denaro e non considera tutte quelle attività gratuite legate alla vita che avvengono nella sfera domestica. In questione non è la monetizzazione di quelle attività, riducendole in tal modo al mercato, quanto piuttosto di allargare l’oggetto di studio dell’economia «perché combaci con la definizione che si è data». «Includere le attività non pagate in una scienza che non si risolve più solo intorno al denaro può avere ripercussioni utili e pioneristiche nella risposta alla questione se effettivamente non esista una alternativa a questo meccanismo della retribuzione, come correntemente si afferma» (p.77).
Il ri-centramento dell’economia cambia le priorità e crea ordine nel pensiero. In La vita alla radice dell’economia Praetorius afferma di: «porre al centro ciò a cui spetta il centro, spostare al margine ciò a cui spetta una posizione marginale». (p. 17). Nella sua analisi il mercato smette di essere al primo posto e assume di nuovo il suo ruolo di sistema secondario di scambio e di distribuzione delle eccedenze.
Su questi temi, Praetorius sa di essere all’interno di una ricerca corale e dedica l’ultimo capitoletto – dal titolo Care Revolution: la rivoluzione della cura – ai movimenti e alle situazioni che già si pongono in questo orizzonte. È tuttavia consapevole che «oggi ci sono molti movimenti ma ancora non si può parlare di un’irruzione di un nuovo paradigma scientifico che ponga (di nuovo) al centro gli esseri umani» (p. 44). Quindi la strada è aperta ma c’è ancora tanto lavoro da fare. Siamo a metà del cammino – così dice.
Mi interessa sottolineare che nella sua impostazione cambiare le priorità in economia, cioè mettere al primo posto i bisogni primari e al secondo posto il mercato, costituisce un orientamento politico che si può applicare in ogni situazione, trasformandola. Un esempio convincente di cui parla in più occasioni riguarda negli anni ’90 del secolo scorso la lotta delle insegnanti svizzere di applicazioni tecniche ed economia domestica perché il loro lavoro era minacciato da una riforma scolastica che voleva abolire queste materie, per sostituirle con ore di inglese e di informatica. In quella lotta, Praetorius ha spostato il piano dalla difesa sindacale a quello del senso e delle priorità nel vivere, con approfonditi ragionamenti che hanno portato le insegnanti alla vittoria e i responsabili cantonali dell’educazione ad impegnarsi a valorizzare le «competenze di esserci»da lei proposte. In un importante discorso rivolto a quelle insegnanti – primo articolo pubblicato su Via Dogana n. 60, La filosofia del saper esserci (2002) – l’autrice oppone all’attuale primato dell’economico per cui sono importanti solo l’inglese e il computer, l’importanza fondamentale delle arti del vivere, che sono ancora considerate come affari di donne, quindi private e non pubbliche. Nella scena pubblica, secondo la visione (maschile) del mondo che è invalsa fino ad ora, agire significa un fare sistematico, razionale, verso determinati obiettivi. Ina Praetorius obbietta che in realtà gli esseri umani funzionano in questo modo solo quando effettivamente producono oggetti, ma che questa è solo una minima parte dell’agire umano. Propone la competenza di esserci e di farne una filosofia. Esserci significa l’insieme della nostra esistenza, dalla nascita alla morte con tutto quello che ne fa parte, giovinezza, malattia, libertà, bisogno, debolezza, forza.
(www.libreriadelledonne.it, 21 febbraio 2020)