Fra le due guerre Rituali crudeli, ipocrisie sociali e disperate rivalità femminili in un breve romanzo di Irène Némirovsky, pubblicato in Francia nel 1930 e da poco uscito per Adelphi
Daniela Padoan
Nel decennio che seguì la Rivoluzione d’Ottobre, Parigi ospitò numerosi intellettuali russi in esilio, come Vladimir Nabokov, Nina Berberova e Marina Cvetaeva. Fra questi, Irène Némirovsky, ebrea di origine ucraina, nata a Kiev nel 1903 e destinata a morire, non ancora quarantenne, ad Auschwitz. Dopo un soggiorno in Finlandia e in Svezia, la famiglia Némirovsky si trasferì in Francia, dove il padre, ricco finanziere rovinato dai rovesci della storia, riuscì a ristabilire i propri affari. La giovane Irène, che parlava il russo, il polacco, l’inglese, il finnico e l’yiddish, studiò letteratura alla Sorbona e iniziò a pubblicare novelle sotto pseudonimo. Appena ventiseienne, diede alle stampe il suo primo romanzo David Golden, in cui ritraeva impietosamente il milieu ebraico degli affari. L’anno successivo, andando più a fondo sullo stesso tema, scrisse Il ballo (da poco pubblicato per Adelphi, traduzione di Margherita Belardetti, pp. 83, euro 7), un piccolo gioiello di ferocia in cui la rivalità tra madre e figlia, l’ipocrisia sociale e la ricchezza da parvenu della famiglia danno origine a una folgorante vendetta adolescenziale. Quando i tedeschi, tra il maggio e il giugno del 1940, invasero la Francia, Irène, che nel frattempo si era sposata con un banchiere ebreo e che con lui si era fatta battezzare, venne abbandonata da quasi tutti coloro che prima avevano ricercato la sua compagnia e ammirato il suo lavoro: come molte altre intellettuali assimilate, di fronte al montare del nazismo era tornata ad essere semplicemente un’ebrea. Nell’ottobre di quello stesso anno, con l’introduzione delle leggi razziali, fu costretta a portare la stella gialla e le fu vietato di pubblicare opere con il proprio nome, mentre il marito dovette cessare di esercitare la sua professione. Angustiata dalle difficoltà economiche e dalla preoccupazione per l’incolumità delle sue due bambine, Irène si trasferì in un villaggio della Borgogna dove, nel luglio 1942, venne arrestata dalla gendarmeria francese, internata nel campo di Pithiviers e deportata ad Auschwitz. A nulla valsero le suppliche del suo editore, Albin Michel, all’ambasciatore tedesco a Parigi e al maresciallo Pétain, capo del regime fantoccio di Vichy, né le proteste del marito, che pochi mesi più tardi seguì la sua stessa sorte. Le due figlie, Denise ed Elisabeth, riuscirono a salvarsi, nascoste di convento in convento da una donna cattolica; in una valigia gelosamente conservata durante i continui spostamenti, insieme alle foto di famiglia c’era il taccuino che conteneva gli scritti della madre, vergato con una grafia sempre più minuta man mano che la carta si faceva introvabile. Si trattava dei primi due libri che avrebbero dovuto comporre l’affresco in cinque parti di un paese invaso e di una società disgregata, pubblicati in Francia nel 2004 con il titolo di Suite française (la traduzione italiana, sempre per Adelphi, uscirà a settembre) e accolti come un evento letterario, tanto da ottenere, a titolo postumo, il Prix Renaudot.
Alla luce degli eventi che si sarebbero rapidamente succeduti, Il ballo assume toni profetici. Scritto l’anno prima del grande crollo in Borsa e quattro anni prima dell’avvento del nazismo, è il romanzo di un massacro, in cui, anche se non accade quasi nulla, niente si salva. Resta un vuoto assordante: quello degli invitati che non arrivano, devastando ogni sogno di ascesa mondana, e quello di un’insanabile frattura familiare, tanto più tragica nel suo essere ammantata di vacuità.
La protagonista, Antoinette, è una ragazzina di quattordici anni, lunga e magra, il volto smunto, apparentemente sottomessa al dispotismo capriccioso di una madre che non vuole essere spodestata dal territorio della giovinezza. Il padre, Alfred Kampf, si è sollevato da un’esistenza di stenti, dopo aver lavorato come impiegato e prima ancora come usciere in livrea blu alla Banca di Parigi, grazie a un geniale colpo in Borsa. La madre, Rosine, esacerbata da anni di vita matrimoniale «passata a rammendare i calzini» in un appartamentino buio dietro all’Opéra-Comique vede finalmente possibile la sua rivincita e, dopo aver spinto il marito a trasferirsi in un grande appartamento bianco dai mobili dorati, si fa tingere i capelli di un bell’oro splendente. D’improvviso tornano i desideri soffocati in una non voluta maturità, e la donna, che vede la propria bellezza sparire, specularmente alla figlia si strugge nell’attesa di un amante giovane e focoso, e di tutti quei lussi che la povertà le ha negato. L’occasione, quasi il timbro apposto a suggellare il raggiunto successo, viatico ai sogni romantici e mondani, è una sontuosa festa da ballo. Duecento inviti da spedire. La madre, il padre e la figlia seduti al tavolo del salone a scrivere gli indirizzi sui cartoncini, sentendosi spiati dai domestici, davanti ai quali il padre si sforza di non togliersi la giacca, la madre di non alzare la voce, la figlia di non piangere: per il decoro, di cui proprio i camerieri – più che i signori Kampf, che ora, davanti alla servitù, si danno del voi – sono i cerimonieri. La lista degli invitati, piena di cancellature e che, per errore, contiene anche l’indirizzo del tappezziere, sembra presa dalla cerchia in cui è cresciuto il singolare imbroglione immortalato da Thomas Mann nelle Confessioni del cavaliere d’industria Felix Krull: una signora non più invitata in società da quando è stata coinvolta «in quella faccenda… sai, le famose partouze del Bois de Boulogne, due anni fa»; la signora d’Arrachon, vista da qualcuno, anni prima, in una casa chiusa di Marsiglia, «ma il matrimonio l’ha ripulita, riceve gente assai distinta»; Abraham e Rebecca Birnbaum, che dopo aver comprato il titolo sono diventati il conte e la contessa du Poirier; e, infine, la signorina Isabelle, una vecchia e malevola zitella cugina dei Kampf, invitata solo perché il resto della famiglia possa rodersi venendo a sapere del successo avuto da Rosine in società. Che i più presentabili tra gli invitati diano forfait è già messo nel conto: «Ci vuole metodo, mia cara: per il primo ricevimento gente a non finire, soltanto al secondo o al terzo si fa una cernita» assicura Kampf, che ha dovuto imparare dai suoi trascorsi. «Se qualcuno non viene, lo inviterai di nuovo la prossima volta, e poi ancora la volta dopo… Per farsi strada bisogna seguire i precetti del Vangelo: se ti danno uno schiaffo, tu porgi l’altra guancia. Il bel mondo è la migliore scuola di umiltà cristiana».
Antoinette non ha mai partecipato a un ballo, ma le immagini dei corpi allacciati nelle danze, della musica sfrenata, del fruscio degli abiti, delle parole d’amore bisbigliate nei salottini appartati eccitano la sua immaginazione adolescenziale. Quando scopre che la madre ha previsto di mandarla a letto, come sempre, alle nove, la implora di lasciarla prender parte alla festa, almeno per un’ora, ma il rifiuto di Rosine è irrevocabile: «Sappi, mia cara, che io comincio soltanto adesso a vivere, capisci, io, e che non ho intenzione di avere tra i piedi una figlia da marito». Mai Antoinette aveva visto negli occhi della madre quello sguardo freddo di donna, di nemica. E dentro di sé sente crescere un odio disperato, rivolto contro la madre, contro tutti gli innamorati che passeggiano abbracciati al crepuscolo, contro quelle gioie sensuali che non conosce ma di cui le sue membra impuberi chiedono dolorosamente soddisfazione: «Un odio da zitella a quattordici anni?».
Proprio mentre la sua istitutrice amoreggia sul ponte Alexandre III, Antoinette, non vista, anziché spedire gli inviti li getta nella Senna. Il giorno della festa, la madre, «rutilante, scintillante come un reliquiario», attenderà inutilmente gli ospiti. Un’attesa terribile, come di un vetro in cui si propaghi lentamente un’incrinatura, fino a crollare in un fragore di schegge; e la figlia ad assistere, muta, non vista, al via vai imbarazzato dei camerieri, allo sciogliersi del ghiaccio nei secchielli da champagne, al continuo attaccare le danze dei musicisti per ogni squillo dei fornitori alla porta di servizio, al disfarsi dell’acconciatura materna, fino al prorompere del reciproco risentimento dei coniugi Kampf, in un fiotto di insulti rabbiosi. Solo allora Antoinette uscirà dal suo nascondiglio, per andare, silenziosa, ad abbracciare la madre. «Povera mamma…». «Ah, mi resti solo tu, bambina mia…».
Un finale che ricorda un altro crudele rituale mancato di accettazione e di ascesa sociale, in una disperata ricerca dello stigma dell’aristocrazia, quando la vecchia maîtresse di Le confessioni di Max Tivoli di Andrew Sean Greer, nel 1914, invita a un ballo i suoi antichi clienti, tutti arricchiti in Borsa grazie alla frequentazione del suo salotto, dove era facile captare informazioni riservate sui titoli. Aveva comprato una elegante dimora bianca per la quale aveva speso fino all’ultimo soldo, e non per la pace dei suoi ultimi anni, ma proprio al solo scopo di dare «un ricevimento con un Vanderbilt, e vederlo voltarsi verso di me e dirmi: “Signora, è stato un piacere”». Ma al ricevimento arrivano gli uomini, senza le mogli, mentre inutilmente l’orchestra attacca il Danubio blu perché le coppie si lancino nelle danze.
Balli, entrambi, falliti, sul baratro delle due guerre; a fare da specchio ai balli riusciti, resi sabba del grottesco da un vorticare di abiti rossi, perle, cappelli a cilindro, denti d’oro occhieggianti da ghigni rapaci di industriali e militari immortalati nei quadri del dadaista Georg Grosz, costretto a lasciare l’Austria all’ascesa del nazismo. Balli che mettono in scena quello «spirito piccolo borghese di cui Hitler è stato la più pura incarnazione», come dirà Hermann Broch (viennese di origine ebraica, anch’egli costretto all’esilio dall’avvento del nazismo) parlando della dissoluzione di una borghesia che, affondando profondamente nella colpa etica, rese possibile la catastrofe. Apolitici, indifferenti, incolpevoli. Persino chi, di lì a poco, sarebbe finito tra le vittime. In questo è lo splendore lucido della Nèmirovsky, e il suo lascito.