Leonetta Bentivolglio
Joyce Carol Oates, forse la massima romanziera americana vivente, torna a esplorare le dimensioni impietose del danno e della pena. Da oltre un quarantennio questa scrittrice nata nel ‘ 38, ostinatamente ricorrente tra i candidati al Nobel, sembra accanirsi in un’ immersione nel dolore di gente comune, condizionata dall’ accrescimento dei bisogni nella società del consumo, sullo sfondo di quella provincia sterminata che è l’ America. Offrendo interni famigliari, o destini individuali, colti in passaggi cruciali o devastanti, là dove una violenza efferata frantuma un equilibrio, o dove emerge un bagaglio di memorie rimosse. Scorre in questo clima anche il suo ultimo romanzo, La madre che mi manca, appena uscito in Italia. La madre è Gwen, vedova di fervida vocazione materna, trionfalmente aderente alle più convenzionali aspettative di ciò che s’ intende per “buona madre”. Ma il fato non perdona nelle storie della Oates, che traspongono in sfere mitiche vicende famigliari. Gwen viene uccisa da un balordo, massacrata in un delitto senza senso. Ed è una morte che stravolge la vita di Nikki, la più indocile e “diversa” tra le sue due figlie. Giornalista dalla chioma punk e dagli amori instabili, Nikki ridisegna nel lutto la propria mappa interna. Fantastica su Gwen, ne rivive il passato, la affranca dalla sua maschera di rispettabilità. Compie un bizzarro itinerario iniziatico, denso di metamorfosi e costellato di incontri inattesi. Di continuo, in questo viaggio conturbante e imponente (mezzo migliaio di pagine), pare affiorare dietro al volto di Nikki la stessa Oates, riflessa nella sua protagonista come in una parte di sé, o in una se stessa più giovane. «E’ vero», conferma la scrittrice, «molti aspetti mi accomunano a Nikki, e innanzitutto il fatto che siamo entrambe figlie di madri eccezionalmente calde, generose e altruiste, inseribili nella categoria delle cosiddette madri “tradizionali”. Tutte e due siamo state antitetiche a nostra madre, situazione per molti versi ironica e implicitamente problematica. Inoltre Nikki è una giornalista che si tuffa avidamente in ogni nuovo incarico, per poi allontanarsene e dimenticarlo. Un po’ come accade a uno scrittore con i suoi libri». Il personaggio di Gwen ha molto in comune con sua madre? «Somiglia alla mia defunta madre, Carolina Oates, sia fisicamente che in termini di personalità e di rapporti col prossimo. Appartengono entrambe al genere di donne volonterose e abili nel “fare di tutto” per parenti e vicini, molto amate ma spesso sottovalutate in vita. Nella società contemporanea americana, soprattutto in certi ambienti, si è attribuita sempre meno importanza al “mero” ruolo di madre». Nikki tende a identificarsi con la madre dopo averla persa. Va a casa sua, ne adotta il gatto, ne prova le ricette… Anche lei ha vissuto quest’ immedesimazione? «Non sono andata a stare a casa dei miei dopo la loro morte, ma vivo circondata da cose e oggetti che loro hanno “creato”. Ho ancora i manufatti di mia madre e i vestiti che cucì per me, e conservo i lavori artistici di mio padre, come una lampada di vetro colorato. Così mi sembra di abitare dentro qualcosa del loro mondo perduto. Sono certa che questo meccanismo coinvolge di frequente chi ha perso i genitori». A volte, in La madre che mi manca, lei usa intere pagine di maiuscole, come nel lungo periodo, molto aggressivo sul piano grafico, fitto dei “PERCHE’ ?” gridati da Nikke dopo l’ omicidio. «Volevo riflettere l’ ansia ossessiva provocata in lei dalla perdita della madre, evento che considera insensato e anche ironico. Quella di Gwen è una morte quasi accidentale, che non sarebbe potuta avvenire in nessun altro momento e in nessun’ altra circostanza. Gwen era nel posto sbagliato al momento sbagliato. Sono state la sua generosità e la sua mancanza di sospetti a consegnarla al suo assassino. Quanto a mia madre, lei morì per cause naturali, ma in modo repentino, per un infarto, e fu per me un fulmine a ciel sereno». Il paese di Mount Ephraim, dove si svolgeva un suo precedente romanzo, Una famiglia americana, è lo stesso in cui ora ha ambientato La madre che mi manca. Perché tornare sul “luogo del delitto”? «Quella di Mount Ephraim è la parte nord-occidentale dello Stato di New York, e io sono nata in quella zona, a Lockport. Naturale che sia portata a farne il set delle mie storie. Vivevo in una famiglia unitissima, i miei erano ottimi genitori e si conduceva la tipica vita di fattoria, col lavoro in campagna e il tempo per girovagare ed esplorare in solitudine. Nessuno, nei dintorni, era molto abbiente, perciò non posso dire che la nostra fosse una famiglia povera, a paragone delle altre. Eravamo gente comune per quell’ epoca e quel territorio, dove ho trascorso un’ infanzia serena e “normale”». Eppure sangue e violenza dilagano nei suoi romanzi, mescolandosi all’ amore e al desiderio in tragedie contemporanee che intrecciano Eros e Thanatos. «La tragedia è una forma d’ arte che mi ha sempre attratto. I miei libri coinvolgono passioni particolarmente intense, dunque è inevitabile che implichino un legame fortissimo tra Eros e Thanatos. Però ci sono forme meno estreme d’ amore, come gli affetti familiari e l’ amicizia, su cui scrivo altrettanto spesso. Il desiderio struggente di Blonde (è il titolo del libro della Oates su Marilyn Monroe, ndr) era di opporsi alla morte attraverso l’ essere amata e amabile. Sognava di suscitare un amore così potente da salvarla dall’ oblio». A dispetto delle sue storie laceranti, lei non ama definirti pessimista. «Perché le mie storie parlano non solo di dolore e morte, ma anche del confronto umano con la violenza, col dolore e con la morte, e del modo in cui persone comuni possono trionfare in condizioni difficili. Credo che la mia fiducia nella forza dell’ essere umano e nella sua capacità di ripresa sfugga ai critici, che nella loro fretta di valutare un romanzo in meri termini di trama leggono velocemente e superficialmente. L’ arte tragica punta a esaltare l’ essenza umana, non a sminuirla. Come ci si può mettere alla prova se non in circostanze estreme? Ci sono molti individui che diventano eroi in situazioni di emergenza, e io voglio focalizzare questo comportamento. Come nel romanzo Una famiglia americana, dove una famiglia “perfetta” è aggredita dall’ esterno e messa alla prova». E’ d’ accordo con l’ idea che la sua opera tenda a formare una controstoria dell’ America, segnalandone la deriva spirituale e culturale in contrasto con le illusioni dell’ American Dream? «Molti scrittori e artisti americani interrogano, esplorano, rifiutano e forse ridefiniscono il Sogno Americano, tema dal quale sono attratta potentemente in tutta la mia fiction». Campeggiano nei suoi romanzi famiglie sbandate, disunite, sconvolte da incidenti e rivelazioni pericolose. Pensa che la famiglia tradizionale oggi sia molto in crisi in America? «Più che di crisi parlerei di un’ evoluzione naturale e in corso da decenni. Perché una donna dovrebbe sposarsi giovane, avere dodici figli e obbedire alle norme antiquate e insensate imposte dalla Chiesa? “Tradizione” è solo un’ altra parola per indicare un certo tipo di oppressione vigente in passato. Sarebbe stupido volerla rispettare». Il suo prossimo romanzo? «Sarà la storia di un’ altra famiglia “in crisi”. Il titolo è The Grave Digger’ s Daughter (La figlia del becchino), ed è un’ avventura epica americana».