di Valeria Palumbo
«Perché parlate degli schiaffi ricevuti da vostra figlia come di “alterchi” tra coniugi?»: la giudice Paola Di Nicola, in prima linea nella battaglia contro la violenza e le discriminazioni di genere, punta il dito anche contro i testimoni ai (pochi) processi per violenze sulle donne. Lo fa in occasione della presentazione del suo nuovo libro, La mia parola contro la sua (HarperCollins), alla Feltrinelli di Milano. Non per assolversi e assolvere la magistratura o le forze di polizia che sembrano tutelare così poco le vittime. Ma per sottolineare che è proprio il profondo radicamento, in ciascuno di noi, dei pregiudizi contro le donne a rendere difficile la lotta contro la violenza. Ogni forma di violenza. Lo ha ripetuto durante il suo intervento di cui, nel video qui sotto, riproduciamo una parte.
Il 50% dei processi per violenze finisce con l’assoluzione
Scrive Di Nicola ne La mia parola contro la sua: «Se in Italia – così come in Europa e nel mondo – la percentuale di donne vittime di violenza che denuncia quanto subisce è inferiore al 10 per cento, i magistrati dovrebbero interrogarsi sulle ragioni per le quali un fenomeno criminale e culturale di tale drammatica portata rimane ancora sotterraneo. A febbraio 2018 si sono chiusi i lavori della Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio e sulla violenza contro le donne nel nostro paese ed è emerso che circa il 50 per cento dei processi per questo tipo di reati si conclude con l’assoluzione degli imputati e che il dato tiene conto delle enormi differenze tra i tribunali italiani, a dimostrazione di quanto la cultura e la preparazione dei singoli giudici siano il vero discrimine».
Gli stereotipi che le donne si portano dentro
Nel libro, che è anche molto intimo e che si rivolge direttamente agli uomini, Paola Di Nicola non fa sconti a nessuno. Tanto meno a se stessa. Scrive: «Ci ho messo oltre venti anni per accorgermi, sia come giudice che come persona, del pregiudizio collettivo che travolge le donne che subiscono violenza maschile. Se oggi lo osservo navigare di soppiatto e poi prendere intrepidamente le onde in tutta la sua cruda rozzezza è per due motivi: il primo è che ho sperimentato su di me e sul mio ruolo istituzionale lo stereotipo di genere, il secondo è che sono stata costretta ad affinare gli strumenti conoscitivi e culturali per togliermi di dosso quella familiare sensazione di insopportabile disagio».
La sentenza che ha conquistato la scena
Eppure ben pochi magistrati possono vantare una battaglia come la sua a favore delle donne, che si estesa anche all’uso del linguaggio (come ha dimostrato anche nel suo libro precedente, La giudice, edito da 881 nel 2012). E soprattutto a sentenze innovative come quella per cui è più conosciuta. Risale al 2016, ed è stata emessa al termine del processo contro uno dei clienti delle ragazze adolescenti che si prostituivano al quartiere Parioli, a Roma. Due anni di reclusione, come prima cosa. Ma, al posto dei 20mila euro richiesti dalla curatrice della ragazza, costituitasi parte civile, Di Nicola decise di far investire la somma in letteratura e cinema. La lettera del dispositivo recitava: «Libri e film sulla storia ed il pensiero delle donne, di letteratura femminile e sugli studi di genere». Non un’imposizione alla lettura, come ha precisato alla Feltrinelli, ma un invito. Affidato alla coscienza. Non soltanto della ragazza. Adesso quella sentenza sta per diventare spettacolo, Tutto quello che volevo: Cinzia Spanò, autrice e interprete, lo presenterà in anteprima a Bookcity (16-18 novembre, a Milano) e poi dal 2 al 19 maggio 2019 al Teatro Elfo Puccini.
(27esimaora.corriere.it, 2 novembre 2018)