di Simonetta Sciandivasci
Il suo primo romanzo, “Lo spazio bianco”, stava per essere pubblicato, e sulla Repubblica Carla D’Alessio scrisse che Valeria Parrella, se fosse stata un colore, sarebbe stata l’arancione. Era il 2007, aveva trentatré anni e alle spalle molto teatro, il Premio Campiello Opera Prima, due raccolte di racconti, gli studi classici, la finale dello Strega (dove è arrivata anche quest’anno, unica donna in sestina). La incontro in piazza Bellini, a Napoli, in un bar che sta tra il conservatorio e un affaccio su un ipogeo sul quale hanno legato uno striscione che dice: essere napoletani è meraviglioso. Penso a Matilde Serao, che a un certo punto da Napoli era andata via perché non riusciva a lavorarci: la distraeva – aveva scritto: “Troppa poesia, troppa bellezza, troppo Vesuvio”. Ma Parrella non è distraibile. Mi dice che avrebbe voluto darmi appuntamento a piazza Dante ma fa troppo caldo, sedersi è impossibile, ed è tutta colpa di Gae Aulenti, no, scherza, non è colpa di Gae Aulenti, ma della giunta che l’aveva chiamata e le aveva affidato la riqualificazione della piazza e lei aveva studiato le carte del 1600 e aveva visto che all’epoca lì non c’erano alberi e quindi aveva deciso di levarli. E però che ne sapeva lei, era arrivata da Milano e aveva stravolto la piazza, e poi se n’era tornata a Milano, e da allora per i napoletani è diventato impossibile sedersi a Piazza Dante: non c’è ombra, le panchine si surriscaldano, se ti ci siedi sopra ti vengono le emorroidi, vedi perché sono NoTav anche se non ne so niente di Val Di Susa? Solo chi vive in un territorio sa di cosa ha bisogno quel territorio e ha diritto di scegliere cosa deve starci e cosa no.
Me lo dice concitatamente, come mi dirà tutto il resto.
Secondo Kandinskij, l’arancione è “come un uomo sicuro della sua forza”. L’arancione la descrive perfettamente, la collega di Repubblica aveva ragione.
Nel suo ultimo libro, “Quel tipo di donna”, appena uscito per HarperCollins, la nota in esergo è una frase che le ha detto una volta Luisa Muraro, filosofa femminista tra le fondatrici della Libreria delle donne di Milano. Questa frase: “Stringiti alla comunità delle donne, perché quando sarai vecchia saranno loro che ti salveranno, non i maschi”.
Mi dice qualcosa di più sulla conversazione privata tra lei e Muraro?
Ero ospite a Tempo di Libri per parlare di “Enciclopedia della donna”, che avevo pubblicato da poco. Chiara Valerio aveva invitato anche Muraro, che aveva accettato di venire nonostante non fosse d’accordo con niente di quello che avevo scritto: lo trovava maschile. La mia protagonista, Amanda, scopava dal mattino alla sera, pensava che gli uomini le sarebbero piaciuti fino alla fine, immaginava che, da vecchissima, in un molto confortevole ospizio che avrebbe potuto permettersi essendo molto ricca, avrebbe fatto pensieri zozzi pure sull’infermiere che le avrebbe tolto la bava.
Mica male come vecchiaia.
Infatti.
E allora?
E allora con Muraro avevamo discusso parecchio, e poi sciolto le ostilità, superato le diffidenze. Lei mi aveva detto: pensavo che ti fossi corrotta, e invece mi sbagliavo, ma ricordati che a salvarti, da vecchia, non saranno i maschi, ma le donne.
A salvarla da cosa?
Dalla solitudine. L’unica vera paura che abbiamo o che dovremmo avere tutti, in fondo, è di rimanere soli. In compagnia si può affrontare qualsiasi cosa, mentre da soli no, gli ostacoli raddoppiano, i fantasmi prendono forma, diventano concreti. E’ soltanto negli altri che sta la spinta a sfidare ciò che ci depotenzia, perché gli altri sono la ragione per essere competitivi nonostante le nostre fragilità. La disabilità genera handicap soltanto se chi la porta non chiede aiuto, si chiude, rinuncia alle sfide. Basaglia intuì che per i malati psichiatrici a contare non era tanto l’ospedalizzazione quanto l’inserimento nella società: aprire tutto a tutti, tutti a tutti. Non funzionò non perché la sua intuizione fosse sbagliata, ma perché mancò una comunità accogliente. Lo so per esperienza: tutto quello che puoi fare con gli altri è migliore di quello che puoi fare da solo. Tutto, tranne scrivere.
I libri non sono lavori di squadra, in fondo?
Certo. Ma c’è sempre il momento in cui per fare un mondo dentro devi scartare quello fuori.
È spaventoso?
Affatto, è libertà. Io mi sento libera solamente quando scrivo. Per il resto no, le condizioni sociali non mi permettono molto di più che un anelito alla libertà. E in fondo è giusto così, è in quella incompletezza che c’è la ragione per la quale facciamo tutto.
Lei però mi sembra molto disinvolta. E la disinvoltura è un affluente della libertà, no?
Sono del tutto disinteressata al giudizio altrui. E da qui certamente ricavo la capacità che ho di dire sempre quello che penso: mi viene facile, mi è sempre venuto facile.
È più difficile dire quello che si pensa o dire quello che non si pensa?
Dire quello che si pensa richiede una solidità particolare. Nel mio caso credo si tratti di una forma di autostima che deriva dai miei genitori: non mi hanno mai fatto mancare il loro sostegno e so per certo che è importante sostenere un bambino durante il suo sviluppo psicofisico. Conosco persone che hanno fatto scelte molto difficili in situazioni di grande ignoranza e le hanno fatte con leggerezza perché sentivano l’amore della propria famiglia. E conosco altri che vengono da ambienti assai più illuminati che tremano all’ombra di loro stessi perché hanno avuto genitori giudicanti.
Il corpo è un limite alla libertà?
È il contrario: nel corpo dispieghiamo la libertà.
Ma è anche l’oggetto privilegiato dei giudizi. Soprattutto dei primi, quelli che riceviamo da piccoli e che ci condizionano di più.
Se lo intendiamo in senso politico, sì: il corpo è il luogo dove si scatena il potere. Ma succede proprio perché è lo spazio della possibilità individuale. Mi riesce difficile, comunque, parlare di corpo come unità a sé: sono una materialista, corpo e anima per me sono indissolubili. Io sono qui davanti a lei, con lei perché ho questo corpo. Che mi sta liberando mentre le parlo.
Le parole che potere hanno?
Di diventare quelle giuste nel momento in cui tu che le usi decidi che lo siano. In “Quel tipo di donna” c’è una parola che ho inventato: ho chiesto alla mia editor se potevo inserirla, abbiamo cercato su tutti i vocabolari per capire se esistesse o meno, e quando ci siamo rese conto che non era così, lei mi ha detto di sì, perché comunque si capiva. Esiste anche questo, che non so se sia un potere, di certo è un prodigio: uno inventa un nome e tutti capiscono cosa indichi, perché suona bene, richiama, evoca. Fa nascere qualcosa.
Hanno scritto che questo suo nuovo libro è femminista.
Io sono femminista.
Che significa?
Significa una cosa che non possiamo non essere, in un paese dove in più di settant’anni di storia repubblicana non abbiamo avuto nessun presidente del Consiglio donna, nessun presidente della Repubblica donna, e soltanto tre presidenti di Camera e Senato donne.
Siamo un paese maschilista?
L’Italia è un paese patriarcale e una sfumatura di questo patriarcato è il maschilismo. Voglio dire che pure chi non è maschilista tende a mantenere posizioni di potere: non riconosce che a fare la differenza per includere le donne potrebbe essere un suo passo indietro. Una volta una mia editor diventò direttrice di collana per la narrativa italiana della mia casa editrice di allora: quando la chiamai per congratularmi, mi disse che tutte le volte che una donna arriva in un posto di potere è perché stanno abbassando gli stipendi. Nell’editoria gli uffici stampa sono tutti femmine perché tutte e tutti riconosciamo la capacità di relazione come un tratto forte e tipico delle donne, però non riusciamo a emanciparci dall’idea che vada fatta diventare la parte strategica del paese, e così lasciamo che esistano figure non di potere che la fanno fruttare al meglio, e che naturalmente sono sottopagate. Non ci mettiamo in testa che devono comandare le donne, punto e basta. Una settantina d’anni, e poi ne riparliamo.
Non ha paura del potere?
Il potere va inteso in maniera etimologica: la possibilità di fare qualche cosa. Non comandare, ma poter incidere sulle realtà. Non mi aspetto che tutti siano martiri o eroi, ma chi decide di fare di più, di tentare di far fare uno scatto alla realtà che lo circonda, e di farlo in virtù di qualcosa che lo travalica, deve poterci provare. Chi ci riesce, ha il potere. Chi non ci riesce, è un martire. Se ci pensa, le Giovanna D’Arco sono tutte femmine di sedici anni o giù di lì: Antigone, Greta.
Morirebbe per un ideale?
No. Morirei soltanto per mio figlio.
Prima di diventare madre, cosa c’era di diverso nella sua vita?
Questo: sarei morta per un ideale.
Lei molti anni fa si candidò alle elezioni europee con la lista “L’Altra Europa con Tsipras” e fu molto votata. Perché ha smesso con la politica?
Non ho smesso. Ho lasciato la politica attiva, che feci in quella occasione perché me lo chiese Ermanno Rea, che mi aveva messo in lista con persone fantastiche, Loredana Lipperini, Franco Arminio, Curzio Maltese, Moni Ovadia. E come facevo a dire di no? Scrivemmo un libretto di autofinanziamento bellissimo: “Avviso ai naviganti”, in cui tutti inserimmo un racconto. Funzionava come la sottoscrizione che si faceva una volta nel Partito Comunista e i militanti lo compravano alla cifra che volevano. Quel partito aveva in mente una idea bellissima e forte di Europa dei popoli, e parlava di come la Troika avrebbe potuto neutralizzare la Grecia. Per me era un dovere provare a evitarlo, e partecipare a quell’esperienza mi sembrò un modo di farlo. Ma mi imbarazzava scrivere il mio nome, chiedere il voto per Valeria Parrella: odio i personalismi e dei leader non mi frega niente: leggo i programmi e vedo i manifesti, da sempre. Mi piacciono i pensatori, mi piace Gramsci, mi piacciono alcuni discorsi di Ingrao, ma dei leader non mi è mai importato. Facemmo il comizio di chiusura a Piazza Dante e preparai il discorso seduta qua dietro su una panchina di pietra, presi un applauso dagli anarchici che erano invece venuti a fischiarci: parlai dei detenuti, che non votano, e infatti sono quasi del tutto assenti dai discorsi delle campagne elettorali, e così anche il pubblico più ostile capì che la mia e la nostra era una sfida altissima. Ricordo che tremavo e tutti mi sfottevano. Per me era una cosa importantissima. Posso fare la cialtrona se parlo di letteratura, non se vado a impegnare un cittadino in una scelta esiziale, come è ogni scelta di voto.
Ermanno Rea perché è stato così importante per lei?
Era uno scrittore di cui mi fidavo. Ha visto le stesse cose che ho visto io, ma prima. Era sempre accogliente. Gli uomini anziani comunisti non sono paternalisti: ecco, uno dei lasciti del comunismo in Italia è che te ne accorgi se un uomo è paternalista o no. E lui mi leggeva con curiosità, non mi accoglieva con un tono di benvenuto.
In Italia la rivoluzione non si può fare perché ci conosciamo tutti?
Se mai, quella è la ragione per cui la dovremmo fare: ci verrebbe più facile unirci, lottare. La ragione è un’altra: la rivoluzione si fa con le armi, e noi non le abbiamo. Negli anni Settanta c’erano, stavano nelle fabbriche, adesso non più.
Quando ha deciso di fare la scrittrice?
Non c’è stato un momento particolare. È stato naturale. Ricordo che amavo leggere i romanzi rosa, specie quelli di Liala, che avevano delle copertine bellissime, pastellate con sopra un aviatore che sarebbe poi morto dopo il primo bacio – e io mi domandavo sempre come fosse baciare, facevo le prove con lo specchio, sulle mani, lei lo faceva?
Eccome no. Ma mi dica di Liala.
Ah sì. Una mia compagna di scuola mi regalò la sua trilogia: rimasi folgorata perché il titolo dell’ultimo volume era “Liala che torna”. Finalmente c’era un che! Mi sembrò una rivoluzione in quel profluvio di sintagmi nominali che erano i titoli dei romanzi che leggevo allora (Piccole donne, Piccole donne crescono, L’isola del tesoro). E invece Liala stavolta tornava da chissà dove, vedevo il suo movimento, i suoi viaggi, i suoi misteri: tutti in quel “che torna”. E allora presi a girare per casa dicendo: il giorno che scriverò un libro lo intitolerò così e cosà. Inventavo un sacco di titoli e per ciascuno avevo un libro in testa. Finché non scrissi il primo, lo chiamai in un modo altisonante che però funzionò, e adesso eccomi qui.
Ha rinunciato a qualcosa per scrivere?
Sì. A correre. Ero una centometrista e dovetti abbandonare per dedicarmi alla scrittura e allo studio. Ed è l’unico rimpianto che ho. Lo sport mi piace. Lo pratico. Faccio nuoto una volta a settimana e palestra un’altra volta. Sto attenta alla cellulite.
Sa che ai maschi non frega niente della cellulite?
Certo che lo so. Non lo faccio mica per loro.
Non mi dica che crede al mito del farsi bella per sé.
Non è un mito. Io passo molto tempo a guardarmi allo specchio. E lo faccio perché mi piace.
Lei si piace?
Moltissimo. Altrimenti non mi guarderei. E mi sono sempre piaciuta.
Non si è mai sentita in imbarazzo?
Mai.
In soggezione?
Uno dei miti idoli è Noam Chomsky. Molti anni fa andai a vederlo all’Auditorium. Mi nascosi nel sottopalco con una mia amica e quando arrivò gli diedi un libro nel quale avevo nascosto un biglietto con sopra scritto: Noam, you’re here. Come una groupie scema.
Lei è ancora di sinistra?
Eccome. Ma non credo nella sinistra parlamentare. Non mi rappresenta.
Sinistra extraparlamentare e istituzionale possono dialogare?
Certo, a Napoli è successo. De Magistris ha assegnato molti posti occupati ai centri sociali, riconoscendone la funzione civica e culturale. Le bollette le paga il comune e nessuno fiata. In molti quartieri, gli spazi autogestiti sono un punto di riferimento per tantissime famiglie, fine della storia.
Le piace De Magistris?
Mi piace la sua carica vitale. E apprezzo il fatto che non sia colluso, corrotto: in una città come Napoli non è semplice. Ha fatto cose importanti: ha tenuto aperti gli asili nido che rischiavano la chiusura quando il patto di stabilità aveva bloccato molti fondi, ha creato mense, servizi per i diritti dei disabili, ha dato la cittadinanza onoraria a tutti i bambini che nascevano da migranti a Napoli. Diceva: non posso darvi la cittadinanza italiana ma vi do le chiavi della città.
Perché la sinistra non è capace di unirsi?
Ha questo di bello: è composita e friccicarella. Si bisticcia perché su cento persone di sinistra, ci sono cento idee diverse. Per questo voglio il proporzionale.
Non eviti la mia domanda.
E che vuole, che mo’ il problema della sinistra che litiga lo risolviamo io a lei a questo tavolino? Secondo me, poi, il punto è un altro: è che la sinistra da troppo tempo cerca solo consensi. La prendo da un altro lato. Da piccola avevo i genitori comunisti ma i miei nonni paterni erano fascisti monarchici e avevano votato monarchia al referendum e tutto il resto della vita votarono MSI: quando rischiava di vincere il PCI, votavano DC perché avevano paura. Ora, molti elettori di sinistra è come se stessero votando DC: votano il PD per arginare Salvini. Ma questo che c’entra con la sinistra? Soltanto Landini fa discorsi di sinistra. E fa un ragionamento politico che viene dai libri e cerca di incarnarsi negli operai. Ma quanto è difficile parlare alle egide e ai gruppi quando questi gruppi sono stati artatamente divisi e depauperati di forze e riconoscibilità? Pensi alla lotta degli insegnanti, alle modalità schizofreniche di assunzione e reclutamento che li hanno messi gli uni contro gli altri. Come si fa a fare il sindacato degli insegnanti, se sono stati spezzettati in categorie e non si riconoscono più in una figura unica? E a questo processo infame sono stati sottoposti tutti i lavoratori, dopo l’abolizione dell’articolo 18. Quindi io e lei stiamo facendo un discorso antico, parliamo della sinistra come se fossimo in Francia, ma noi non abbiamo le 35 ore: noi abbiamo i co.co.co., la gente che lavora otto ore al giorno e guadagna 300 euro al mese.
Dove fa politica, se la fa ancora?
Su Twitter!
Non è vero.
La faccio anche nel quartiere. Cerco di essere una figura di raccordo tra i cittadini e le istituzioni. Per esempio abbiamo creato un comitato per far aprire l’ex Italsider ai cittadini.
Com’è vivere a Napoli?
Non si resta mai soli. Napoli è un’altra persona con la quale avere a che fare. Tu hai un marito, un figlio e poi hai Napoli.
Serao la abbandonò perché la distraeva troppo.
A me non distrae niente. Ho scritto “Lo spazio bianco” con mio figlio in terapia intensiva. L’ho scritto sulle ringhiere delle scale dell’ospedale. “Antigone” l’ho scritto con gli operai in casa che mi chiedevano stracci, martelli, bicchieri d’acqua in continuazione. E che problema c’è.
Le nuove femministe giovani le piacciono?
Le trovo bravissime. Ci salveranno.
Cosa manca alla scuola?
L’educazione sentimentale. Io avrei già pronto il programma per realizzarla: educazione di genere e alla diversità, sistemi di inclusione, passaggio generazionale.
Mi piacciono i suoi vestiti.
Scrivo da anni per un giornale di moda, sarà servito a qualcosa. Ho avuto un papà borghese che però spendeva solo per viaggi e libri: non che mi pesasse, ma appena ho potuto usare i miei soldi, non ho lesinato sulla vanità.
È sempre così allegra?
Sì. Però sono una rompicazzo. L’altra faccia di questa vitalità è la rabbia. Perdo il controllo, spacco tutto, urlo, piango.
Cosa la fa arrabbiare?
Potenzialmente qualsiasi cosa. Soprattutto non tollero chi finge di non capire quello che dico.
È ottimista?
Certo che sì.
Perché è progressista?
No. Perché sono viva.
IL FOGLIO, 27 settembre 2020