Grace Paley La struttura profonda di tutto ciò che scriveva era quella ebraica del midrash: un viaggio attraverso i significati Annie Napier Raccontare, per lei, come per Sheherazade, era un modo di lottare contro l’onnipresenza della morte
Alessandro Portelli
A fine agosto, senza che in tanti se ne accorgessero, non solo l’America ma noi tutti abbiamo perso due grandi narratrici: Grace Paley, grande maestra del racconto, dell’ascolto, della voce e dell’interrogarsi, era relativamente famosa, anche se molto meno di quanto avrebbe meritato. L’altra la conoscevano solo la sua famiglia, i suoi vicini e io, che qualche volta l’ho nominata su questo giornale: si chiamava Annie Napier, era di Harlan, Kentucky, manteneva la famiglia guidando lo scuolabus sulle strade contorte di quelle montagne; ascoltava, raccontava, suonava, cantava. Non taceva mai. Un’amica che le ha conosciute entrambe mi diceva: peccato che Grace e Annie non si siano mai incontrate, si sarebbero volute bene. Grace era la città, la strada, i palazzi affollati; ed era la Palestina, il Nicaragua, il Vietnam. Annie era le montagne, gli alberi, le valli strette, la solitudine; il suo corpo era segnato e scavato come la sua terra ferita. E anche lei odiava la guerra. Pochi giorni prima che morisse Grace Paley era uscita una sua intervista sulla Repubblica. Parlava del suo ultimo libro, una raccolta di saggi e articoli messi insieme in tanti anni, tradotta con un intelligente titolo italiano: L’importanza di non capire tutto. Proprio perché era convinta che restasse sempre qualcosa di non ancora capito, Grace Paley non ha mai smesso di provarci, di interrogarsi, di indagare. La struttura profonda sottostante a tutto ciò che scriveva era quella ebraica del midrash: lo svolgersi inesauribile delle implicazioni di ciascuna parola, un viaggio attraverso i significati con destinazione ignota e affascinante. Spiegava il mondo guardando le donne (e di sguincio gli uomini) tanto sulle panchine e nelle cucine dei quartieri popolari di New York quanto nei villaggi del Vietnam e del Nicaragua. In ogni scambio di domande e risposte che comparivano nei suoi testi erano in gioco il quotidiano e l’universale. Pacifista indomabile, femminista ironica, socialista investigativa, ebrea profondamente errante, carica di curiosità e di amori, se tutta la sinistra le somigliasse di più saremmo assai migliori e staremmo assai meglio.
Annie Napier l’avevano operata ai polmoni due anni fa. Ogni volta che ci incontravamo si ripeteva la stessa scena: io seduto sul divano sdrucito di lato sotto la finestra, lei su quello davanti alla televisione che nessuno guardava, con in una mano una tazza di velenoso caffè kentuckiano e nell’altra una sigaretta dopo l’altra. In mezzo a noi, sempre acceso, quasi sempre dimenticato e sempre in ascolto, il registratore. E da lei a me e da me a lei di ritorno, la voce: “Allora, a quei tempi, non avevamo la Tv, né la radio, e la sera quando faceva buio toccava rientrare in casa perché fuori uscivano i serpenti. Così la sera ci chiudevamo in casa e accendevamo il fuoco e mamma e papà si mettevano lì e raccontavano storie di quando erano piccoli. E storie che i loro genitori avevano raccontato di quando erano piccoli loro. È così che è cominciato tutto questo raccontare storie.” Raccontare storie, per Annie come per Grace, era un modo di spiegare il mondo, e di spiegarci quanto fosse inesplicabile.
Il significato di una storia non si esaurisce mai, come il midrash; ogni racconto genera altri racconti, ogni racconto risponde alle domande del precedente e apre domande per quelli che verranno; ed entrare dentro ogni racconto, per semplice che sembri, significa inoltrarsi dentro un infinito di possibilità, in un “giardino dei sentieri che si biforcano” ad ogni parola, ad ogni sillaba. Come per Sheherazade, per Annie raccontare era un modo di lottare contro l’onnipresenza della morte: “Vedi, appena nasce un bambino ha già il mondo intero schierato contro, almeno così era quando sono nata io. Prima di tutto, la casa era tanto fredda che ci voleva fortuna solo per sopravvivere. Quasi tutti erano denutriti e sottopeso. Ma una volta che eri riuscito a fare arrivare fin qui quelle povere creature, le cominciavano a curare coi rimedi casalinghi – tè di cacca di pecora, infuso di erba gattaia – c’è mancato poco che ammazzassero mia sorella Becky. Negli anni ’50, qui girava il tifo, portato dall’inondazione, c’è morto il bambino di mio zio. Ora che arrivavi a due anni, avevi già dovuto superare la scommessa della sopravvivenza.”
Quando arrivavo io piantava tutto e mi guidava ad ascoltare altri narratori: suo zio Plennie, che si portava nella gamba il piombo di una battaglia fra minatori e guardie padronali nel 1941; Will Gent, che raccontava forse con una dose di immaginazione gli orrori del suo Vietnam; James L. Turner, che ricordava ancora i suoi antenati schiavi nella stessa valle dove era cresciuta lei; Lewis Bianchi, imprenditore di pompe funebri con flebili memorie di antenati italiani, che ci spiegava come si fa a rendere presentabili i cadaveri dei minatori morti in miniera o uccisi dalla pneumoconios. Da una tappa all’altra, il suo flusso di racconto non si fermava. Appendevo il microfono allo specchietto, e via. E raccontava di quando anche lei aveva sconfitto, per sé e per la sua bambina, la scommessa della sopravvivenza contro il medico incompetente e ubriaco e contro la sua stessa famiglia, che per motivi religiosi non voleva facesse il cesareo; o quando, agli avvocati delle miniere secondo cui le inondazioni che avevano distrutto le case dei suoi vicini erano un “atto di Dio”, lei aveva risposto “la pioggia sarà pure un atto di Dio, ma non è stato Dio a mandare quei bulldozer a demolire le colline”; o quando il marito era rimasto invalido per un incidente sul lavoro, e lei era andata in fabbrica e al tempo stesso aveva tirato su due figlie, quattro nipoti e adesso cominciava con una bisnipote. Ma era stanca. Raccontava di sopravvivenza e intanto, sempre più pelle e ossa, con quelle incessanti sigarette nei polmoni distrutti, si lasciava ulteriormente distruggere, come se non ce la facesse più.
Triste il paese, triste il mondo, che perde i suoi narratori e soprattutto le sue narratrici. La scommessa per la sopravvivenza oggi, nel fragore incessante della comunicazione, è la scommessa contro il silenzio profondo, il silenzio di chi sente e non ascolta, parla e non dice, dice e non è ascoltato. Grace Paley e Annie Napier erano due prove viventi della fiducia nella possibilità della parola, della propria parola intrisa di parole altrui ascoltate, interiorizzate, restituite in mille forme mutevoli. Credo di essere stato utile ad Annie, perché la stavo a sentire. Anche per Grace Paley, raccontare non era mai un’attività solitaria, un’attività che si riduceva a scrivere chiusi nella propria stanza per lettori lontani e sconosciuti: raccontare voleva dire sempre offrirsi a chi voleva sentire, guardarsi in faccia, muoversi e smuovere. Un suo racconto parla di una bambina ebrea, Shirley Abramowitz, che ha una voce “capace di staccare le etichette”, una voce talmente insopprimibile che le chiedono di fare l’angelo annunciatore nella recita di Natale – e lei, insieme alla sua famiglia, accettano e ne sono orgogliosi, perché non si può imporre a una simile voce di tacere. “Vedi – dice un suo personaggio – per un ebreo ‘chiudi il becco’ è un’espressione terribile, una parolaccia, come un peccato, perché all’inizio, se ricordo correttamente, era la parola.”
Una tipica notte di tregenda nella sua casa isolata in cima alla montagna, Annie mi chiese, “ci credi ai fantasmi?” “No”, dissi io. E lei: “neanch’io. Comunque: ce n’è uno che tutte le sere passeggia dalla veranda alla cucina”. Non ci credo, ma è vero: l’essenza dell’immaginazione. Esiste una relazione fra l’immaterialità e la presenza della voce, e l’immaterialità e la presenza dei fantasmi. Mi viene voglia di immaginarmi Grace e Annie che passeggiano tutte le sere dalla veranda alla cucina, sotto forma di voce – di voci che abbiamo ascoltato, che abbiamo fissato nei libri e nei nastri, e soprattutto voci che continuano a risuonarci nella memoria.