Maria Teresa Carbone
Per celebrare quello che pomposamente, ma a ragione, viene definito il padre della letteratura africana contemporanea, il nigeriano Chinua Achebe, una grande festa è stata organizzata a New York, in marzo. Sono passati cinquanta anni da quando uscì il suo romanzo-spartiacque, Things Fall Apart (Il crollo, edizioni e/o), e tanti scrittori, da Toni Morrison a Michael Cunningham, hanno voluto rendere omaggio di persona all’anziano narratore. In mezzo a loro, anche due giovani romanzieri nigeriani ormai piuttosto affermati, Chris Abani e Chimamanda Ngozi Adichie, che hanno espresso la loro gratitudine ad Achebe, l’uno confessando “la soggezione che si prova davanti al potere dell’immaginazione umana di intervenire nelle nostre vite”, l’altra ricordando il turbamento che le provocò la prima lettura del Crollo. In quel romanzo, ha notato Adiche, “avvertii un gentile rimprovero: non osare nemmeno pensare, sembrava dirmi Achebe, che il tuo passato non sia complesso”.
Se il ribaltamento dello stereotipo che vede nell’Africa una terra semplice e primitiva ha costituito il principale insegnamento di Achebe alle successive generazioni di autori africani, la presenza del quarantenne Abani e della trentenne Adichie alla festa per l’anniversario di Things Fall Apart è stata la concreta testimonianza di come proprio in Nigeria questa eredità sia stata raccolta da una nuova e nutrita leva di scrittori. In tutto il continente infatti non c’è oggi paese, ad eccezione forse del Sudafrica, che possa vantare una tale quantità di giovani romanzieri, accolti con interesse e a volte con entusiasmo dalla critica e dal pubblico internazionale. “Sembra che gli dei della letteratura abbiano ufficialmente designato il 2007 come anno dello scrittore nigeriano” – scriveva lo scorso agosto sul “Times” un altro esponente di questa nouvelle vague, il quarantenne Helon Habila, il cui romanzo di esordio, Angeli dannati, è uscito tempo fa per Sartorio.
Un fenomeno per nulla recente.
Nell’arco di pochi mesi diversi scrittori nigeriani hanno avuto riconoscimenti importanti – fra l’altro il Booker “internazionale” assegnato proprio ad Achebe per il complesso della sua opera – mentre nelle librerie approdava un nugolo di nuovi libri: da The Virgin of Flames di Chris Abani (tradotto qui da Fanucci con lo sciagurato titolo L’ambigua follia di Mr Black), a Starbook di Ben Okri, da Burma Boy di Biyi Bandele (appena edito da Bompiani come Alì Banana e la guerra) a The Opposite House di Helen Oyéyemi, la giovane e dotata autrice della Bambina Icaro, uscito in Italia prima per Rizzoli e poi misteriosamente trasmigrato, con l’etichetta non del tutto appropriata di libro “per ragazzi”, a Fabbri. In realtà, come anche Habila ricordava, questa fioritura di talenti in Nigeria non è un fenomeno recente: Chinua Achebe (e Amos Tutuola) a parte, il primo Nobel per la letteratura assegnato a un africano è andato, più di vent’anni fa, nel 1985, al drammaturgo e romanziere Wole Soyinka, nato nei pressi di Ibadan, nella Nigeria occidentale. E fra gli autori di una ipotetica “generazione di mezzo” non si può trascurare Ken Saro- Wiwa, noto soprattutto per la sua militanza politica (pagata con la condanna a morte nel 1995), ma anche autore dei bei racconti di Foresta di fiori, uscito nel 2004 per Socrates, e del romanzo Sozaboy, riproposto quest’ anno da Baldini Castoldi Dalai.
Proprio Sozaboy è stato uno dei primi romanzi ad affrontare una guerra dimenticata dall’occidente e per molto tempo rimossa in Nigeria, quella che si combatté fra la stessa Nigeria e il Biafra secessionista (e poi sconfitto) fra il 1967 e il 1970. Ancora questo conflitto è al centro della seconda prova narrativa di Chimamanda Ngozi Adichie dopo l’esordio promettente dell’Ibisco viola (Fusi orari 2006), al cui centro si stagliava la figura inquietante di un facoltoso cristiano convertito, intransigente e violentissimo nel suo tendere a una impossibile, e indesiderabile, perfezione. Uscito per Einaudi nella bella traduzione di Susanna Basso (pp. 450, euro 19,50), Metà di un sole giallo – il titolo del libro allude al mezzo sole che campeggiava sulla bandiera biafrana – conferma il talento della scrittrice che qui rivela una mano sicura nel tessere una trama più complessa, intrecciando le vicende personali di una famiglia con la storia pubblica del suo paese. Anzi, se un difetto ha il libro, è proprio quello di apparire come un congegno fin troppo oliato, quasi che l’autrice avesse già in mente, scrivendolo, di mettere le basi per una sua successiva, inevitabile, trasposizione cinematografica. In una intervista, del resto, Adichie ha dichiarato per scherzo (ma forse non troppo) di avere introdotto fra i protagonisti un personaggio bianco perché ancora adesso Hollywood non ama i film “all black”.
Tre le figure-chiave
E cinematografica è la scansione del romanzo, diviso in quattro parti, la prima e la terza ambientate nei primi anni Sessanta, la seconda e la quarta durante la guerra civile, così che gli intrecci sentimentali dei personaggi si riallineano di continuo in un gioco di flashback e flashforward. Un gioco accentuato dalla scelta dell’ autrice di procedere nella narrazione adottando di volta in volta la prospettiva di tre figure-chiave: un ragazzino, Ugwu, che ha appena lasciato il suo villaggio per andare nella città universitaria di Nsukka (la stessa dove Chimamanda Adichie, figlia di accademici, ha trascorso l’infanzia) a servire in casa di Odenigbo, impegnato e carismatico docente di matematica; la bella Olanna, che dopo gli studi londinesi ha preferito abbandonare una vita privilegiata a Lagos per insegnare a Nsukka accanto a Odenigbo di cui è prima l’orgogliosa amante e poi la moglie; e l’inglese Richard Churchill il quale, giunto in Nigeria per condurre degli studi sull’arte tradizionale Igbo, si è innamorato della l sorella di Olanna, la intelligente e magnetica Kainene, e si divide fra la sua casa di Port Harcourt (da cui la donna conduce con mano salda gli affari di famiglia) e Nsukka, dove può compiere le sue ricerche alle quali vorrebbe affiancare la scrittura d un romanzo.
Queste relazioni, complicate dall’intervento della madre di Odenigbo, contraria al matrimonio del figlio con una donna indipendente come Olanna, passano in secondo piano quando a Nigeria, in seguito a due colpi di stato, fra il gennaio e il luglio del 1966, piomba nell’instabilità. Le tensioni etniche nei confronti degli Igbo portano l’anno dopo alla proclamazione della repubblica indipendente del Biafra e alla guerra civile. Per Olanna e Odenigbo, insieme al fedele Ugwu, così come per Richard e Kainene, cominciano tempi durissimi. Finite le accalorate, e accademiche conversazioni di Nsukka, si apre una fase di spostamenti forzati e di violenza. Qualche speranza di vittoria lascia presto lo spazio alla constatazione che il nuovo paese africano, riconosciuto da pochissimi stati, deve e affrontare un avversario militarmente ben più ne forte: il Biafra è solo e affamato, ma gli articoli di Richard chiamato a raccontare al mondo quanto sta accadendo, non danno risultati. In m questo clima di disfatta, all’interno di un campo profughi dove la morte per fame è una esperienza quotidiana, le due sorelle si ritrovano e condividono di nuovo quella profonda relazione affettiva che precedenti scontri e incomprensioni sentimentali avevano interrotto. Ma la fine della guerra, con il suo peso di amarezza e desolazione, coincide per i protagonisti con una perdita irreparabile. I primo a proiettarsi di nuovo verso il futuro sarà Ugwu che, dato per morto in uno scontro a fuoco, ritorna a casa, assumendo su di sé il compito di testimone che era stato di Richard.
Affidando al semplice ragazzo di campagna, e non al colto espatriato britannico, la scrittura di un libro sull’atrocità della guerra del Biafra (“il mondo taceva mentre noi morivamo” è il titolo, che cadenza gli ultimi capitoli di Metà di un sole giallo), Chimamanda Adichie sembra ricollegarsi al tema di fondo di Things Fall Apart, la riappropriazione del passato africano, remoto e prossimo, da parte degli scrittori del continente. Forse per questo, non pochi critici, soprattutto americani, hanno paragonato la giovane scrittrice appunto ad Achebe il quale, da parte sua, le ha riconosciuto “il talento degli antichi cantastorie”: un complimento per certi versi fondato, visto che il romanzo è scorrevole e avvincente, i personaggi sono credibili, i toni alternano giudiziosamente ironia e dramma.
Political correctness a parte, però, in Metà di un sole giallo, più che una affinità con la maestria stilistica di Achebe (a suo tempo così audace nell’impastare il proprio impeccabile inglese con modi di dire e proverbi igbo), si avverte l’influenza dei corsi di creative writing seguiti negli Stati Uniti dall’ autrice, l’esecuzione diligente e riuscita di una ricetta imparata bene. Che non è poco, ma non basta – almeno per ora – per gridare al capolavoro.
Eppure, affiancando il romanzo di Chimamanda Adichie agli altri che sono usciti negli ultimi tempi, l’impressione di vitalità della nuova narrativa nigeriana resta innegabile. E non tanto perché si delinei una comune linea di tendenza, ma al contrario per le differenze che caratterizzano i diversi autori: alla prosa magmatica e “metropolitana” di Abani, che prima da Lagos e ora da Los Angeles scandaglia gli effetti positivi e negativi della “mitologia dell’imperialismo”, si oppongono le atmosfere misteriose evocate da Helen Oyeyemi, attratta, nella Bambina Icaro come nell’ultimo The Opposite House, dal crinale impalpabile fra realtà e magia, mentre al furore del soldato-bambino protagonista di Bestie senza una patria di Uzodinma Iweala (Einaudi 2006) fanno da contrappunto i personaggi malinconici e estraniati di Segun Afolabi nella raccolta di racconti A Life Elsewhere (Jonathan Cape 2006).
Dai sogni della diaspora
Figlio di diplomatici, Molabi ha lasciato giovanissimo la Nigeria e ha vissuto la maggior parte della sua vita all’estero. Non è quindi sorprendente che la scrittura di Afolabi non prenda come riferimento Achebe o Soyinka e si modelli semmai su quella di Kazuo Ishiguro, un altro autore anglofono che, segnato da un precoce trapianto culturale, ha scelto di scrivere in un inglese per nulla ibridato, tanto all’apparenza reticente quanto chirurgicamente preciso nel descrivere situazioni e stati d’animo attraverso una costante attenzione alle sfumature verbali. Tuttavia nel suo romanzo Goodbye Lucille (Jonathan Cape 2007), anche l’algido Afolabi mette in scena un “ritorno a Casa”, quel ritorno a casa che è forse nei sogni di tutta la diaspora nigeriana. Scriveva ancora Habila sul “Times” che in Nigeria il “gene” dello storytelling è particolarmente sviluppato, perché “la maggior parte delle infrastrutture sociali non funzionano, e la maggior parte dei sogni non si realizzano, per cui il solo modo di trasformare le sconfitte in vittorie o la vergogna in orgoglio è attraverso le storie”. Già un paio di case editrici coraggiose però si sono fatte avanti, portando nelle librerie di Lagos e di Abuja le opere di Adichie, dello stesso Habila e di altri autori, e organizzando addirittura dei tour promozionali. Un primo passo è stato fatto, insomma, e se si pensa che la Nigeria è il paese più popoloso in Africa (l’ottavo in tutto il mondo), un intero vivaio di nuovi scrittori è là che ci aspetta.