Maria Teresa Carbone
Rileggendo a distanza di qualche settimana, e a Nobel assegnato, l’intervista rilasciata alla rivista francese «Lire» da Horace Engdahl, segretario perpetuo dell’Accademia svedese, sui criteri che governano l’assegnazione del più celebre fra i premi letterari, non si può fare a meno di notare come il ferreo precetto di segretezza cui i giurati si devono attenere, sia stato – nel caso di Doris Lessing – pienamente rispettato. Nulla è sfuggito all’esterno di quei «dibattiti del giovedì, focosi e argomentati», di cui parla Engdahl: il nome dell’autrice del Taccuino d’oro non compare in nessuna delle liste che come ogni anno, in un gioco rituale, agenzie di stampa, siti di scommesse e blog di tutto il mondo hanno pubblicato nella speranza di indovinare chi sarebbe stato il prescelto. E mentre di certo gli accademici di Stoccolma esultano, contenti di essere riusciti ancora una volta a mettere in scacco i vari profeti del Nobel, è interessante analizzare il riconoscimento a Doris Lessing – e in genere i meccanismi del premio svedese – anche alla luce di questo «effetto sorpresa». Che di sorprendente, per la verità, non ha molto, come ha implicitamente ammesso Elfriede Jelinek, Nobel per la letteratura nel 2004 la quale, dopo essersi rallegrata per il premio alla collega, si è dichiarata a sua volta stupita: «Avrei pensato che lo avesse ricevuto da un pezzo» ha detto la scrittrice austriaca, aggiungendo – candida o perfida? – di non avere più letto niente della Lessing dopo Il taccuino d’oro («una delle opere femministe più importanti della letteratura») ma di essere pronta adesso a riparare. Se davvero Jelinek deciderà di recuperare il tempo, e i libri, perduti, e si prenderà la briga di consultare, magari sul sito stesso del Nobel, la bibliografia di Doris Lessing, scoprirà che l’impresa che la attende è impegnativa: dal lontano 1962, l’anno in cui uscì appunto l’opera che sarebbe stata il livre de chevet di una intera generazione di lettori e soprattutto di lettrici, Lessing ha pubblicato una cinquantina di titoli, più di un libro l’anno – ancora romanzi realistici (spesso di notevole successo internazionale) come La buona terrorista, ma anche saghe di fantascienza, racconti, saggi, drammi, e soprattutto i due testi autobiografici, Sotto la pelle e Camminando nell’ombra, in cui – già molto anziana – ha ripercorso i primi decenni di una vita per tanti versi davvero «spericolata». Non solo per la decisione, inusuale per una donna nata all’indomani della prima guerra mondiale, di lasciare marito e figli per dedicarsi alla scrittura, ma per la consuetudine radicata, e fieramente mantenuta ancora oggi, di puntare lo sguardo sulla «esperienza femminile» (come recita la motivazione del Nobel), quella propria e quella altrui, sottraendosi a pregiudizi e a stereotipi. Assegnandole il premio con anni, o decenni, di ritardo rispetto al periodo in cui i suoi libri più celebri hanno saputo restituire l’atmosfera di un’epoca – il Sessantotto, le lotte femministe – che oggi sembra lontana, gli accademici svedesi hanno probabilmente voluto sottolineare il valore di quella «letteratura di testimonianza» di cui Engdahl parlava nell’intervista a «Lire». Ancora una volta, si potrebbe commentare, un premio politically correct, e poco attento alla scrittura e allo stile. Un commento al quale Lessing, che ha reagito alla notizia del Nobel con il suo solito ironico pragmatismo («la gente che non ha mai sentito parlare di me adesso andrà a comprare i miei libri: è una bella cosa, guadagnerò un po’ di soldi»), resterebbe con ogni probabilità del tutto indifferente.