di Franca Fortunato
Alba A., Maria Stefanelli, Simona Napoli, Giuseppina Pesce, Giusy Multari, Maria Concetta Cacciola, Lea Garofalo, Annina Lo Bianco sono donne cresciute in famiglie di ’ndrangheta, che per amore della loro libertà e quella delle loro figlie e figli sono divenute testimoni o collaboratrici di giustizia, denunciando e mandando in galera madri, padri, sorelle, fratelli, mariti, parenti, i cui legami di sangue hanno da sempre assicurato alla ’ndrangheta omertà, forza e mancanza di pentiti. Un’assicurazione che, da quindici anni a questa parte, le donne hanno incominciato a minare, scegliendo la difficile strada della riappropriazione della propria vita, lontano da quel mondo. Su di loro sono stati scritti libri, articoli, saggi, realizzate fiction e film, io stessa ne ho scritto più volte per dire dell’irrompere nel mondo mafioso dell’imprevisto della libertà femminile che, come una “slavina” – a detta anche dei magistrati di Reggio Calabria –, minaccia l’intero equilibrio delle ’ndrine che hanno costruito la loro forza sull’identificazione della famiglia di sangue con la struttura dell’organizzazione mafiosa. Donne che hanno posto fine alla complicità e omertà delle loro madri, custodi, per generazioni di donne, di un ordine patriarcale violento e criminale, di cui loro stesse sono sempre state le prime vittime, trasformate in carnefici delle loro figlie.
Le collaboratrici, quelle che ce l’hanno fatta a sopravvivere alla condanna a morte che continua a pesare su di loro, perché la ’ndrangheta non dimentica, vivono sotto falso nome con le figlie e i figli in località protette, lontane dalla Calabria. Annina Lo Bianco che, insieme a Maria Concetta Cacciola e Giuseppina Pesce, ha denunciato la boss di San Ferdinando; l’infermiera Aurora Spanò, affiliata alla cosca Bellocco a cui appartiene anche il marito finito in galera, vive insieme al figlio dodicenne, divenuto il “collaboratore di giustizia” più giovane; Giuseppina Pesce, dopo aver portato alle sbarre l’intera famiglia, il padre, la madre, le sorelle, i fratelli e i nonni, vive con la figlia e i figli; Maria Stefanelli, la prima testimone di giustizia in un processo per mafia celebrato al Nord, vive con la figlia e la sua compagna; Giusy Mutari, cugina acquisita di Maria Concetta Cacciola, che ha portato in galera familiari e cugini del marito che l’avevano tenuta segregata in casa per un anno dopo la morte suicida del marito di cui la incolpavano, vive con le tre figlie; Simona Napoli che ha fatto condannare il padre, la madre e il fratello per l’uccisione del suo amante, vive con il figlio.
Di queste donne torna a parlare la giornalista palermitana Dina Lauricella nel suo libro Il codice del disonore. Donne che fanno tremare la ’ndrangheta, edito da Einaudi, con lo scopo di «esplorare soprattutto la cultura domestica della mafia calabrese», sollecitata da una collaboratrice, Alba A. (nome di fantasia), che le telefona per una intervista, in attesa della quale l’autrice scende in Calabria, nella Piana di Gioia Tauro, per capire il perché Alba ha deciso di collaborare. Un perché che accomuna tutte le collaboratrici e la cui risposta sta nel desiderio di rendersi libere e liberare le figlie e i figli da quell’ambiente dove loro sono cresciute e che destina i figli maschi a diventare mafiosi e le femmine a sposare mafiosi. Un destino a cui un gran numero di donne, di madri, non collaboratrici né testimoni di giustizia, hanno incominciato a ribellarsi e si rivolgono autonomamente al Tribunale dei minori di Reggio Calabria per chiedere un futuro diverso per le proprie figlie e figli. Sessanta sono le figlie e i figli di ’ndrangheta trasferiti, dietro richiesta delle madri, in strutture o famiglie al nord, mentre i padri dal carcere minacciano i magistrati, rivendicano il diritto di averli a casa e imprecano per la «distruzione del nucleo familiare». Succede anche che i servizi sociali, davanti alla necessità di intervenire su questi ragazzi e ragazze, si tirino indietro, con ferie o certificati medici di massa, per paura di ritorsioni.
Che donne sono le collaboratrici? Sono giovani, non hanno studiato, passeggiato liberamente per le strade, vissuto emozioni ed esperienze e orizzonti delle loro vite sono i muri delle loro case. Sono donne che conoscono la violenza sul loro corpo da parte di padri, mariti e fratelli, perpetrata davanti a madri complici e anaffettive. È questo il mondo quotidiano che emerge dalle pagine del libro della Lauricella, un mondo sostenuto da una cultura patriarcale violenta e criminale, dentro cui ognuna di loro matura la decisione di riappropriarsi della propria vita, a rischio di perderla. Una decisione che per Alba A, Maria Concetta Cacciola, Giuseppina Pesce, Maria Stefanelli, Simona Napoli viene rafforzata da una relazione extraconiugale, vera o virtuale che sia, iniziata sui social network, dove si registrano con nomi di fantasia per non farsi scoprire dalla famiglia. I social per loro sono l’unica finestra su un mondo altro, dove si mostra la possibilità di una vita diversa. Si innamorano, pur sapendo di rischiare di diventare vittime di un “delitto d’onore” – eliminato nell’ordinamento penale italiano nel 1981 – perché il tradimento «è un’onta drammatica, all’interno di queste famiglie […], un’offesa da essere punita con la morte».
A scoperchiare il “delitto d’onore” dentro le famiglie di ’ndrangheta è stata Giuseppina Pesce che ha raccontato dell’omicidio di una zia, della fidanzata di un suo cugino, di quella del fratello e di qualche sua amica. «Negli ultimi trent’anni – scrive Lauricella – almeno 20 donne sono rimaste vittime nella sola Piana di Gioia Tauro, ma stime ufficiali non esistono sia perché le famiglie non denunciano la scomparsa, sia perché i corpi non vengono spesso ritrovati».
Giuseppina Pesce, Alba A, Simona Napoli, Maria Stefanelli sono riuscite a sfuggire alla legge del delitto d’onore. Le collaboratrici di giustizia sono donne che amano, prima di tutto, le loro figlie e figli, che diventano arma di ricatto e di pressione a ritrattare, se lasciati in affidamento a genitori e parenti durante la collaborazione. Maria Concetta Cacciola l’ha pagato con la vita, dopo essere entrata e uscita dal programma di protezione per poter stare accanto ai figli, lasciati ai suoi genitori, da lei denunciati, che la spingevano a ritrattare e alla fine l’hanno uccisa. A un anno di distanza dalla sua morte, la Corte d’Assise di Palmi ha condannato i familiari per maltrattamenti ma non per omicidio e ad oggi la Dda di Reggio Calabria ha chiesto ulteriori indagini in tal senso.
Alba A., la collaboratrice da cui prende il via il libro della Lauricella, dopo sei mesi di reclusione, ha accettato di collaborare per la mancanza dei figli, lasciati ai suoceri. Il processo è ancora in corso e adesso vive lontano dalla Calabria agli arresti domiciliari, insieme ai due suoi figli. Un mondo della quotidianità, quello della famiglia mafiosa, dove forti restano ancora i legami familiari che non sempre si ha la forza di recidere completamente. Simona Napoli, dopo aver svelato i retroscena dell’omicidio del suo amante, al processo si è avvalsa della facoltà di non rispondere in merito alla vicinanza e al ruolo del padre nelle ’ndrine locali dei Bellocco. Nonostante il padre le abbia rovinato la vita, ucciso l’uomo che amava, l’abbia picchiata e umiliata, Simona non l’è sentita di infliggergli un colpo così duro. La figlia di Maria Concetta Cacciola, Tania, al processo, una volta raggiunta la maggiore età, ha deciso di ritirare la sua costituzione di parte civile, a differenza della figlia di Lea Garofalo, Denise, che è andata fino in fondo, facendo condannare il padre e gli zii per l’uccisione della madre.
Le pressioni dentro quel mondo sono ancora forti, i legami pure, ma c’è qualcosa – come dimostrano le collaboratrici – molto più forte che è l’amore per la libertà femminile, che non si può incatenare, chiudere in gabbia, e che a lungo andare sarà la rovina della ’ndrangheta per mano di donna.
(Casablanca, settembre-ottobre 2019)