di Antonio Carioti
L’avevano paragonata ad Anton Cechov e a Guy de Maupassant, in quanto magistrale autrice di racconti. Ma la canadese Alice Munro, scomparsa all’età di novantadue anni, aveva una sua spiccata originalità e una sensibilità tutta femminile, frutto di travagliate esperienze di vita, che la rendevano inconfondibile e avevano indotto l’Accademia di Svezia ad assegnarle il premio Nobel per la Letteratura nel 2013.
Nessuno come lei sapeva raccontare in modo nitido, con un linguaggio colloquiale, senza fronzoli di alcun genere, le vicende prosaiche delle persone comuni, la vita famigliare, le scelte e le pene quotidiane, i momenti di ripiegamento interiore e quelli di faticoso cambiamento. La povertà, le frustrazioni e la voglia di riscatto.
Alice Munro aveva però anche una capacità impressionante di far svoltare le esistenze dei suoi personaggi, di introdurre nelle sue brevi storie fattori del tutto imprevedibili, destinati a colpire e appassionare. Un talento cristallino che l’aveva fatta amare da lettori di tutto il mondo, dopo l’esordio negli anni Sessanta sulle riviste letterarie del suo Paese.
Non era certo cresciuta nella bambagia. Nata il 10 luglio 1931 a Wingham, nella regione canadese dell’Ontario, il suo nome originario era Alice Laidlaw. Veniva da una famiglia colpita duramente dalla Grande Depressione seguita alla crisi del 1929. Il padre allevava nella sua fattoria animali da pelliccia, in particolare volpi argentate, e la madre, insegnante, lo aiutava sul versante commerciale di quell’attività faticosa e precaria, alla quale poi il marito avrebbe dovuto rinunciare per lavorare in fabbrica.
L’ambiente intorno era difficile e malfamato, con una notevole presenza di contrabbandieri e prostitute. «Vivevamo al di fuori di ogni struttura sociale, in una specie di piccolo ghetto», raccontava Munro. Ma aggiungeva che «era una vita interessante»”, nel quale provava un «grande senso di avventura».
La situazione era peggiorata quando la madre, a soli quarant’anni, si era ammalata del morbo di Parkinson, che l’aveva relegata a letto. E Alice, dodicenne, aveva dovuto assisterla: sostanzialmente reclusa in casa, tra le faccende domestiche e l’esigenza di non lasciare sola la mamma, aveva trovato una preziosa valvola di sfogo nella scrittura.
La passione di narrare era immensa, il talento non mancava. E così nel 1949 la ragazza aveva vinto una piccola borsa di studio biennale per frequentare l’University of Western Ontario. Ma i soldi erano davvero pochi, solo attraverso lavoretti saltuari riusciva a mantenersi. Poi aveva incontrato James Munro, di origine borghese. Si erano innamorati e sposati nel 1951, nonostante l’opposizione della famiglia di lui, ed erano andati a vivere lontano, a Vancouver, sulla costa del Pacifico. In seguito avrebbero aperto e gestito una libreria.
Alice aveva assunto così il cognome Munro, che avrebbe mantenuto anche dopo il divorzio da James. Dalla loro unione erano nate tre bambine, mentre una quarta era morta, nel 1955, poco dopo essere venuta alla luce. Un evento doloroso che avrebbe segnato la scrittrice.
Nonostante i lavori domestici e la cura delle figlie, Alice Munro non aveva certo smesso di scrivere, era la sua vocazione profonda. Ma proprio perché la sua giornata era così densa d’impegni minuti, ricordava, non aveva mai pensato di impegnarsi nella stesura di un romanzo vero e proprio. Aveva esercitato il suo talento nei racconti, mettendosi al lavoro mentre le bambine dormivano o erano a scuola.
Nel 1950, quando era all’università, era riuscita a pubblicare una short story su una rivista studentesca, ma poi per lungo tempo la sua attività era rimasta un fatto privato, noto solo ai suoi cari e a una ristretta cerchia di amici. Nel 1959, alla morte della madre, aveva scritto un racconto di forte impatto dedicato al suo rapporto con lei, La pace di Utrecht, con cui aveva cominciato a farsi conoscere.
Molto importante era stato a tal proposito l’incoraggiamento di Robert Weaver, autore radiotelevisivo e fondatore della rivista letteraria “Tamarack Review”, che ne aveva subito colto le potenzialità e l’aveva incoraggiata e presentata al pubblico. Lei lo avrebbe ricordato come «l’uomo a cui devo quasi tutto».
La prima raccolta di racconti firmata da Alice Munro, La danza delle ombre felici, era uscita in volume nel 1968 e aveva ottenuto un notevole successo di critica, vincendo subito il Governor General’s Award, il più prestigioso premio letterario canadese. In Italia sarebbe uscito solo nel 1994 presso la piccola casa editrice La Tartaruga nella traduzione di Susanna Basso, alla cui fine sensibilità erano state in seguito affidate da Einaudi le successive versioni delle opere di Munro nella nostra lingua.
Era seguito poi un lavoro particolare, La vita delle ragazze e delle donne (1971): nelle intenzioni un romanzo, ma sempre composto di varie storie collegate tra loro. Una caratteristica che si può riscontrare anche in un’altra e più nota opera di Alice Munro, Chi ti credi di essere?, uscita in Canada nel 1978 e in Italia nel 1995 presso le Edizioni e/o.
Con il tempo Alice Munro si era affermata non solo in Canada ma in tutto il mondo anglosassone e dagli anni Settanta in poi aveva pubblicato regolarmente le sue raccolte, con un riscontro crescente anche tra un pubblico di affezionati lettori. Nel frattempo anche la sua vita era cambiata: nel 1972 si era separata dal primo marito e poi era tornata a vivere nell’Ontario con il geografo Gerald Fremlin, che aveva sposato nel 1976.
Nonostante fosse ormai considerata una personalità di notevole rilievo, fino al momento del Nobel la sua fama, notava non senza polemica un convinto ammiratore di Munro, Jonathan Franzen, era rimasta molto inferiore alla sua bravura. Forse anche perché gran parte della produzione di questa autrice propone vicende ambientate nel Canada rurale, un piccolo mondo apparentemente angusto e poco affascinante, a cui la sua arte narrativa giunge a conferire un’esemplarità universale.
Nel 2012 Alice Munro aveva annunciato che avrebbe smesso di scrivere e aveva mantenuto il proposito nonostante il riconoscimento dell’Accademia di Svezia. Personalità schiva, aveva però una straordinaria capacità di osservazione e di comprensione: «Parlo molto con la gente. Ascolto le storie della comunità in cui vivo». La sua “poetica del quotidiano” le aveva procurato un successo crescente anche in Italia: in coincidenza con il Nobel le era stato dedicato un Meridiano Mondadori, già preparato in precedenza e curato da Marisa Caramella. «Voglio emozionare le persone – aveva detto Munro – con delle sorprese, ma non dei trucchi. Voglio che i lettori pensino: sì, la vita è così». Un obiettivo che le sue opere avevano sempre raggiunto in pieno.
(Corriere della Sera, 14 maggio 2024)