di Paolo Giordano
Credo che in molti ricordiamo il momento in cui sullo schermo del computer è comparsa per la prima volta una pubblicità che sembrava leggerci nei pensieri. O lo sbigottimento simile quando ci siamo chiesti: è possibile che lo smartphone mi abbia appena ascoltato? O ancora, il misto di gratificazione e imbarazzo quando è stato l’iPhone stesso, spavaldamente, a domandarci: «A cosa stai pensando?».
Ricordiamo il giorno in cui accedendo alle nostre foto abbiamo scoperto che erano state arbitrariamente suddivise in categorie, raggruppate in base ai volti ricorrenti, ai paesaggi, perfino alle emozioni sottese, come se una mano materna e invisibile si fosse preoccupata di mettere ordine nelle nostre vite. Io ricordo anche il tuffo al cuore iniziale nel percorrere su Street View la via dove abitavo, nello scovare la facciata della mia casa di allora. E il pomeriggio, molto tempo prima, in cui mio padre mi chiamò per mostrarmi la meraviglia di Google Earth, la palla della Terra tutta contenuta nel monitor, la promessa implicita in quella tecnologia di poter presto arrivare ovunque, di vedere tutto, di conoscere ogni dettaglio del pianeta.
Ma soltanto oggi, dopo le seicento pagine del Capitalismo della sorveglianza, riconosco quei momenti come le tappe di un accerchiamento, di un percorso occulto diretto all’espropriazione della mia esperienza, della mia privacy, della mia natura stessa di essere umano.
Definizione: «Il capitalismo della sorveglianza è un nuovo ordine economico che sfrutta l’esperienza umana come materia prima per pratiche commerciali segrete di estrazione, previsione e vendita». Significa, in modo più diretto e grossolano, che aziende come Google, Facebook, Microsoft e Twitter, all’apparenza così magnanime nella loro gratuità, lucrano sui dati che il loro utilizzo gli permette di raccogliere su di noi. Significa che quei dati sulle nostre vite, che forniamo in parte volontariamente e in larga parte no, sono il bene più prezioso e richiesto oggi dal mercato, il petrolio della nostra epoca. Shoshana Zuboff ha consacrato un’opera monumentale a questa mutazione ultima del capitalismo, forse la più estrema e la più subdola, di certo la più sfuggente che la civiltà si sia trovata ad affrontare.
Se il capitalismo di Karl Marx si cibava di forza lavoro, se la sua materia prima era la classe operaia, il capitalismo della sorveglianza si ciba «di ogni aspetto della vita umana». E la sua materia prima siamo, semplicemente, noi: le nostre fotografie, i nostri commenti, i nostri viaggi, i nostri amici, le nostre idiosincrasie, le nostre paure, i nostri desideri, le nostre condivisioni, i nostri like. L’analogia è fertile, quindi conviene spingerla più avanti: se il capitalismo industriale ha portato alla distruzione dell’ambiente che oggi cerchiamo malamente di fronteggiare, il capitalismo della sorveglianza minaccia di distruggere niente meno che la nostra libertà.
Zuboff documenta passo dopo passo la costruzione di questo potere trasparente e ormai ubiquo. Gli attori principali della storia che racconta hanno nomi precisi: si chiamano Google, Facebook, Microsoft, Twitter; si chiamano Zuckerberg, Page, Brin, Schmidt e Sandberg, ma hanno raccolto attorno a sé una folla di comprimari, tutti bramosi di avere un pezzo della nostra esperienza da rivendere sul mercato. E si tratta di una storia recente, sebbene il mondo sia quasi irriconoscibile da com’era prima. «L’anno spartiacque nel quale il capitalismo della sorveglianza mise radici» è il 2002, quando Google inventò il targeted advertising, la pubblicità mirata. All’incirca, insomma, quando abbiamo visto comparire sullo schermo quell’inserzione che sembrava averci letto nei pensieri.
Le pubblicità online di prima erano casuali, ci cadevano addosso a pioggia, indistintamente, un po’ come i manifesti che attirano o no il nostro sguardo per strada. Google, sulla cui barra le persone digitavano parole alle quali erano interessate in un preciso istante, capì che avrebbe potuto sfruttare quelle stesse parole per supporre cosa passasse nella testa dei suoi utenti e proporre loro, di conseguenza, pubblicità selezionate. Conoscere con esattezza i desideri di ogni singolo consumatore è sempre stato «il Sacro Graal della pubblicità»: i templari di Brin e Page lo avevano trovato. Era semplice. Era geniale. Così geniale da far schizzare Google fuori dalla selva delle start-up a rischio di estinzione in quegli anni di crisi. Ma non bastava. Seguendo fino in fondo lo spirito inaugurato con le pubblicità mirate, Google sarebbe infine diventato il colosso dell’economia mondiale che è oggi, nonché la potenza egemone delle nostre singole vite, l’entità che tutto sa e tutto prevede di miliardi di persone sul pianeta.
Dal 2002 le tecniche di raccolta – o sarebbe meglio dire di mietitura – dei dati personali si sono perfezionate a una velocità sbalorditiva. Altri capitalisti della sorveglianza si sono affiancati a Google. Facebook in particolare, con l’introduzione del tasto Mi piace, si è trovato all’improvviso in vetta alla classifica. Non doveva nemmeno fare la fatica di supporre ciò che i suoi utenti desideravano, perché erano loro smaniosi di dichiarare ogni preferenza: vestiti, animali domestici, cibo, serie tv, scuole, farmaci, partner sessuali, candidati alle prossime elezioni. Tutto.
La corsa all’oro era aperta. Facebook, Google e gli altri hanno assoldato i giovani informatici più brillanti del pianeta, così come matematici, fisici e ingegneri; se li sono strappati di mano con stipendi vertiginosi, tanto da creare una crisi di cervelli nella ricerca. Li hanno chiusi in ufficio a estrarre e analizzare dati, e hanno aggiunto altri soldi affinché non pensassero troppo alle conseguenze etiche di quanto stavano combinando. Tutte quelle menti fibrillanti insieme hanno fatto una scoperta ancora più grandiosa. Hanno capito che, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, i dati più interessanti per profilare un utente non sono quelli che l’utente fornisce in modo esplicito. Non sono le nostre preferenze dichiarate né le parole chiave digitate sulla barra di Google, bensì tutti quei dati impliciti legati alle nostre azioni mentre utilizziamo internet, i social network e la galassia di dispositivi collegati alla rete. Ciò che Shoshana Zuboff battezza il «surplus comportamentale».
Gli algoritmi sviluppati nella Silicon Valley sono in grado di comprenderci molto meglio se analizzano gli orari in cui facciamo più scrolling su Instagram, il numero di profili che seguiamo, i filtri che usiamo volentieri per valorizzare le nostre foto. Misurano la lunghezza delle nostre frasi, la quantità di emoji che ci mettiamo dentro e quanto abusiamo di punti esclamativi. Di più: riconoscono le smorfie impercettibili nei nostri selfie e le esitazioni nei messaggi vocali, potrebbero perfino contare i battiti di ciglia mentre guardiamo un video di YouTube che ci appassiona o ci disgusta o ci intenerisce. Forse lo fanno. Tutti questi metadata, elaborati opportunamente, dicono di noi più di quanto saremmo in grado di spiegare a parole. Eccolo il cibo preferito del capitalismo della sorveglianza: psicologia del comportamento combinata con statistica e capacità di calcolo sempre più estese. Così «non è la sostanza che viene analizzata, ma la forma». A essere scandagliato non è più il nostro conscio, tutto sommato abbastanza semplice da catturare e per noi da controllare, ma l’inconscio stesso.
L’ambizione folle del capitalismo della sorveglianza è diventata quella di conoscere tutto di noi prima che noi stessi lo sappiamo. Il suo fine ultimo: utilizzare quella certezza su di noi, contro di noi, per manipolarci, modificarci e spingerci ad acquistare sempre di più. «Lo scopo – scrive Zuboff – non è imporre norme comportamentali come l’obbedienza o il conformismo, ma produrre un comportamento che in modo affidabile, definitivo e certo conduca ai risultati commerciali desiderati».
Il meccanismo principe di mietitura dei dati è la trasmissione dei cookies, quelle informazioni condivise, «mandate indietro» ogni volta che siamo online, ovvero sempre. Ecco un altro evento, più recente, che ricordiamo tutti: il giorno in cui è diventato obbligatorio per i siti esporre le loro politiche sui cookies e, per noi, accettare di volta in volta le condizioni che ci vengono proposte. In quanti ci siamo preoccupati di approfondire le ragioni di quella norma? Per lo più, me compreso, l’abbiamo vissuta come un intralcio. Esaminare tutti i contratti che sottoscriviamo con i nostri clic sarebbe impossibile in ogni caso. «Due professori della Carnegie Mellon hanno calcolato che per leggere in modo adeguato tutte le policy sulla privacy che s’incontrano in un anno sarebbero necessari 76 giorni lavorativi». Era il 2008, figurarsi oggi. A essere sinceri, poi, sono altre le cose che c’interessano sul serio riguardo a internet: la larghezza della banda, i giga di traffico, il costo dell’abbonamento. Vogliamo navigare liberi e veloci, «senza limiti», il resto non conta. Quindi accettiamo accettiamo accettiamo, diamo il nostro consenso senza leggere, senza nemmeno guardare. Basta che ci lascino navigare in pace.
I capitalisti della sorveglianza lo sanno. La nostra insofferenza è proprio ciò che gli permette di proseguire indisturbati nell’esproprio dei dati. Siamo noi a spalancare le porte.
Il «kentuki» è un peluche simpatico collegato a uno sconosciuto da un’altra parte del mondo che costantemente, attraverso gli occhi e le orecchie del pupazzo, ci osserva, ascolta, registra. La scrittrice argentina Samanta Schweblin ha immaginato questo antidoto perverso alla solitudine. Il suo romanzo, Kentuki, è uno dei primi a raccontare questa nuova epoca – l’epoca del capitalismo della sorveglianza. Ma il «kentuki» non è pura fantasia. Nel 2017 la bambola Cayla è stata ritirata dal mercato statunitense. Il governo ha invitato chi ne era già in possesso a distruggerla. Cayla, si è scoperto, sorvegliava gli smartphone dei suoi giovanissimi proprietari e quelli dei loro genitori. Una bambola spiona, insomma. Nella stanza dei bambini.
I capitalisti della sorveglianza sono sempre più numerosi, rapaci e spregiudicati nella caccia al surplus comportamentale. Alcuni esempi, come quello della “mia amica Cayla”, sono inquietanti. Le auto nere di Google che si aggiravano per le strade nel 2010 per realizzare la grande opera di Street View raccoglievano in segreto dati personali dalle reti wi-fi delle abitazioni. «Nomi, numeri di telefono, informazioni sul credito bancario, password, messaggi, trascrizioni di email e chat, dating online, pornografia, informazioni sull’uso del browser, dettagli medici, geolocalizzazione, file audio, video e fotografici». Tutto quanto, insomma. Chi gliene aveva dato il diritto? Nessuno.
E se fuori casa non si è al sicuro, dentro è peggio. L’aspirapolvere autonomo Roomba è stato studiato non solo per tirare a lucido il parquet, ma anche per mappare l’interno dei nostri appartamenti. Le informazioni che raccoglie vengono poi vendute a Google, Apple e Amazon, in modo che possano indicarci quale pianta comprare per riempire quell’angolo che abbiamo lasciato miseramente vuoto. La condivisione di quei dati ovviamente è facoltativa, ma se non si acconsente Roomba non sarà «smart» com’è stato concepito. Anche il sogno della domotica, visto dalla prospettiva di Zuboff, non è altro che una mietitura massiccia d’informazioni, un’incursione violenta nel nostro spazio più intimo.
Eppure, imprenditori come Zuckerberg, Brin e Page fanno di tutto per presentarsi come nostri alleati. Sono gli eroi del nostro tempo, i campioni dello “Zeitgeist neoliberista” della Silicon Valley: vi renderemo liberi, padroni delle vostre scelte, in contatto sempre più stretto con i vostri desideri e la vostra comunità, e senza chiedervi nulla in cambio. Una retorica stucchevole che mantiene qualche strascico della sua origine hippy e lascia intravedere quasi sempre lampi di megalomania. Se non fossimo tutti così ubriachi d’innovazione tecnologica sapremmo riconoscere le loro parole per quel che sono davvero: spaventose.
A Davos, nel 2015, Eric Schmidt, ceo di Google, dichiarò: «Ci saranno talmente tanti indirizzi IP, […] un’infinità di dispositivi, sensori, cose indossabili, cose con le quali interagire, che non ve ne accorgerete neanche più. Sarà parte di noi costantemente».
Larry Page al «Financial Times», nel 2016: «Abbiamo bisogno di un cambiamento che non sia incrementale, ma rivoluzionario. Probabilmente possiamo risolvere gran parte dei problemi degli esseri umani».
Mark Zuckerberg, di recente, mentre difendeva la sua criptovaluta Libra al Congresso: «Facebook significa mettere il potere nelle mani della gente» (appena cinque mesi prima, il co-fondatore di Facebook Chris Hughes aveva definito il potere di Mark Zuckerberg “sconcertante” sul New York Times).
E ancora Larry Page: «In termini generali è meglio che sia Google e non il governo a detenere i dati delle persone». Google, non il governo. Perché Google sta sopra il governo. Google sta sopra la democrazia.
Mentre alle convention infiocchettano scenari di armonia tecnologica, Schmidt, Zuckerberg e Page sanno esattamente da dove arrivano i guadagni delle loro aziende. Altrimenti perché investirebbero decine di milioni di dollari l’anno in attività di lobbying per contrastare ogni proposta di legge che possa anche solo limitare la mietitura dei dati? Zuboff non ha mezzi termini: «Google è guidata da due uomini che non amano la legittimità del voto o la supervisione democratica, e che da soli controllano come viene organizzata e presentata tutta l’informazione del mondo. Facebook invece è guidata da un uomo che non ama la legittimità del voto o la supervisione democratica, e che controlla da solo un mezzo di connessione sociale sempre più diffuso e l’informazione presentata o nascosta nelle sue reti».
Dopo aver letto queste parole, non ci tremeranno un po’ i polsi quando, tra pochi minuti, accetteremo ciecamente la condivisione di tutti i cookies?
Le motivazioni per cui Google, Facebook, Microsoft, Twitter e compagnia hanno prosperato indisturbati fino al punto in cui ci troviamo sono molteplici, alcune strutturali, altre circostanziali. Zuboff ne individua almeno dodici. La principale è senza dubbio il nostro consenso all’esproprio, ma l’invasione della privacy ha beneficiato anche di una congiuntura storica favorevole. L’11 settembre prima, i fatti di Parigi, Berlino, Nizza e Manchester dopo, hanno aumentato nell’opinione pubblica il bisogno di protezione e diminuito quello di privacy. Segretezza e sicurezza sono sempre inversamente proporzionali, o almeno è così che ci vengono presentati. Non è poi così grave essere sorvegliati se questo ci garantisce un po’ più d’incolumità. E cos’avrei da nascondere, io? Non sono un terrorista o un assassino o un truffatore. Se il mio segreto è qualche accesso sporadico al porno o qualche commento fuori tono su Twitter, che mi spiino pure.
Ecco sigillato una volta per tutte il nostro “patto faustiano” con i capitalisti della sorveglianza. Ne è prova che neppure gli scandali maggiori, come quello denunciato da Edward Snowden e l’affaire Cambridge Analytica, hanno portato a un cambiamento significativo delle abitudini. Sapere che i nostri profili social, i nostri innocui Mi piace sono stati venduti e sfruttati per influenzare scientificamente le intenzioni di voto, che quel traffico ha determinato il voto sulla Brexit, l’elezione di Trump e le elezioni italiane avrebbe dovuto provocare una disconnessione di massa. Non è successo. Evidentemente non basta: il patto è ancora troppo conveniente, i rischi troppo astratti. La nostra ignoranza abissale.
Molti anni fa accompagnai un’amica tra le montagne del Friuli. Stava preparando una tesi sperimentale sulla distribuzione dei cervi. La raccolta dati consisteva nel vagare giorno e notte a bordo di una Panda malmessa, per poi appostarsi con un’antenna e intercettare i segnali inviati dai radiocollari dei cervi. Una sera ci accorgemmo che un esemplare era particolarmente vicino. Proposi di avvicinarci per vederlo, ma la mia amica mi disse di no. La sua ricerca doveva essere rispettosa al massimo dell’intimità degli animali.
Dai capitalisti della sorveglianza non possiamo aspettarci nemmeno un briciolo di quella correttezza. I più esposti alla nuova forma rapinosa di esproprio, le prede più facili, sono ovviamente i giovani. Zuboff dedica loro un capitolo intero, dove condensa ciò che molti studi scientifici confermano, ciò che insegnanti e genitori hanno capito da tempo, ciò che tutti sappiamo ma non vogliamo ammettere per la paura, poi, di dover cambiare qualcosa: la «combinazione di scienza del comportamento e design avanzato» del mondo digitale è «pensata nel dettaglio per sfruttare le esigenze della gioventù […]. Per molti, questo design mirato, insieme al bisogno pratico di partecipazione sociale, trasforma i social media in un ambiente tossico, che non solo pesa su di loro psicologicamente, ma minaccia il loro sviluppo e quello delle generazioni a venire».
Minaccia il loro sviluppo e quello delle generazioni a venire.
Alcuni artisti, per fortuna, iniziano a svegliarsi, a interessarsi, a vedere. E così alcuni giornalisti, scrittori, attivisti. La politica? Speriamo che non tardi troppo, perché l’unico argine possibile allo strapotere dei capitalisti della sorveglianza è di tipo istituzionale, giuridico. Ma la spinta, esattamente come sta accadendo per il clima dopo decenni d’indugi, deve venire dai cittadini.
La posta in gioco è alta, forse un po’ ardua da comprendere, ma non impossibile. Aspirapolvere che misurano le nostre case, bambole che ci spiano, algoritmi che decodificano le nostre emozioni sommerse, cardiofrequenzimetri che parlano in giro delle nostre condizioni di salute, videogame che giocano con i nostri figli, dispositivi con voci rassicuranti che origliano le nostre conversazioni, altri dispositivi che sanno dove siamo in ogni momento, app che aprono altre app che ne aprono altre ancora; flussi mastodontici di dati spremuti dai nostri corpi e usati per prevederci e condizionarci, per farci votare in un certo modo e per farci comprare di più, ancora di più. È questa la società in cui ci piace vivere? In cui ci piacerà vivere? Quanto teniamo ancora alla nostra libertà individuale? E quanta connettività siamo disposti a sacrificare per difenderla?
Mentre Shoshana Zuboff lavorava al progetto che sarebbe infine diventato Il capitalismo della sorveglianza (ora pubblicato da Luiss), un fulmine si abbatté sulla sua casa, incendiandola. Zuboff perse in pochi minuti tutto il materiale raccolto. Pensò che non avrebbe avuto la forza di ricominciare e invece, grazie anche al sostegno dei familiari, si rimise all’opera dal principio. È un mito fondativo che mi piace, degno del libro che ha scritto – un libro che forse, un giorno, verrà guardato come il manifesto di una resistenza, speriamo già iniziata.
(Corriere della sera, 9 febbraio 2020)