di Cristiana Fischer
Care tutte,
dopo avere ascoltato l’altra sera il vostro incontro su Piera Oppezzo, (Dicono: o vivi o scrivi, Libreria delle donne, 15 giugno 2019) voglio aggiungere una riflessione, a integrare quanto è stato detto.
C’ero anch’io nella rivista di poesia fatta solo da donne, mi aveva suggerito Bibi, che conosceva il progetto di Piera Oppezzo, di telefonarle. Forse la prima sera in cui andai in via Monti incontrai Milli Graffi e Giulia Niccolai, che allora non conoscevo e dopo frequentai.
Essendo una rivista di poesia di donne, le femministe eravamo Piera ed io.
La rivista scoppiò dopo il primo numero, che era un numero 0. Non ricordo però che il “litigare troppo” – per cui Laura Lepetit decise di non pubblicare oltre – fosse nato in seguito alla agitazione creata da una donna nuova nel gruppo. A meno che lei non fosse diventata la causa occasionale, per un conflitto che non era diventato esplicito ma era già presente.
Piera scrive affermando, dice “questo è, è così, poi c’è questo, e questo”. Frasi brevi, come faceva Gertrude Stein. Ma Piera ci dice che lei è diversa da Stein. Il mondo è slegato, mancano connessioni fondamentali, “io” dice, e resta sospesa, isolata. In un periodo in cui invece, in poesia e non solo, dominano un io/noi collettivo o, all’opposto, altri io parlano ispirati dal noto “demone della poesia”.
Ai tempi le donne erano state protagoniste di battaglie, e in generale si pensava che fosse importante ascoltarle e averle con sé. Piera è apprezzata per il suo stile, non per il sé estraneo e la solitudine che propone. La poesia di avanguardia, cui allora si riferivano Milli e Giulia, era espressiva e decisa, le donne che vi si riconoscevano non pensavano alla loro differenza femminile come un limite, superabile con chiarezza e convinzione. Racconto questo episodio: una sera in redazione si cercavano temi condivisi su cui poi ognuna avrebbe lavorato per sé. Cominciarono a uscire rabbia e accuse, una sbottò: basta con questo rivendicare, altrimenti hanno ragione a dire che “siete” delle galline… Silenzio, poi risate. Ecco, eravamo diventate importanti, ma lorsignori guidavano la compagnia.
Dopo quarant’anni, l’altra sera Milli ha fatto capire come fosse allora inconcepibile il senso che avrebbe potuto avere, in letteratura, l’infelicità che Piera voleva esprimere: «la poesia per lei era una continua autoanalisi, straordinaria perché per un verso aveva questa capacità di iniziare un discorso con una espressione diretta… poi dopo non trapela niente, gira tutto intorno, diventa un rebus straordinario, ma non affronta assolutamente il problema che normalmente si dice… amore». E ancora: «aveva sia da una parte la capacità di un’espressione molto comune, molto popolare, molto diretta, che affrontava direttamente il problema così com’era, e poi invece un’autoanalisi che era spesso come sospesa… perché non è che ogni volta che fai una autoanalisi trovi esattamente quello che tu vuoi».
Sapientemente Milli isola alcune figure importanti, la sfera di cristallo che rotola, la lunga sciarpa, e spiega che, in termini freudiani «quello che hai nell’inconscio si srotolerà e diventerà conscio». In termini freudiani. In un senso simbolico femminile sarebbe stata altra cosa, da scoprire per poterla dire.
Piera non ha trovato attenzione proprio per i vuoti che lei dichiarava: «Sono le pause che sono troppe. Io ho troppe pause. Lo faccio apposta / lo faccio per raccogliere / dirmi che ci sono state delle cose. / Se ci fosse qualcuno per liberarmi delle pause per un periodo un po’ lungo. Diciamo un giorno intero / tre giorni sarebbe meglio / qualche mese sarebbe il massimo.» La questione che poneva era di esplicitare l’infelicità, poterla tradurre in parole condivisibili nel medium letterario dell’epoca.
Milli ha tenuto a parlare dell’ultima poesia di Piera: «riesce a esprimere il sentimento che ha verso la poesia e verso la vita, alla fine ha avuto il contatto – lo ha sempre avuto – con la realtà, è una espressione di gioia». Quindi l’infelicità di Piera avrebbe anche potuto, anzi dovuto, non essere.
Nemmeno io amavo la sua tristezza, potevo capirla, perché estraneità e solitudine femminile il femminismo cominciava a metterle in parole, ma non condividevo lo stato d’animo. Eravamo giovani, Milli ha detto «avevamo… avevo il bambino», io ne avevo due, era un periodo di liberazione e di attacco, più che di stasi e sofferenza.
Oggi è possibile, perché abbiamo ormai una storia, riconoscere l’esplicita intenzione espressiva di Piera, Anna Nogara leggendo ad alta voce lo ha mostrato. Allora non ci fu un ambiente letterario neutro-maschile che la inserisse, e solo uno femminile in formazione, che poco ha saputo, e maldestramente, autorizzarla.
(www.libreriadelledonne.it, 17/6/2019)
È uscita nel 2016 una raccolta di sue poesie, Piera Oppezzo, Una lucida disperazione, edizioni Interlinea, riproposta da Luciano Martinengo