di Franca Fortunato
Riportare in vita una madre, strapparla all’oblio della morte, raccontare di lei in onore della figlia, è un gesto di amore femminile per la madre. È quello che ha fatto la scrittrice Maria Rosa Cutrufelli col suo libro Maria Giudice. Vita folle e generosa di una pasionaria socialista (Neri Pozza 2024), scritto in onore della figlia Goliarda Sapienza, sua amica e compagna di scrittura, in ricorrenza quest’anno del centenario della nascita. È dal ricordo del gruppo di scrittrici femministe, tra cui Adele Cambria e Elena Gianini Belotti, di cui facevano parte entrambe, che l’autrice parte per introdurci nel racconto della vita straordinaria di Maria Giudice, vissuta tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento. Una vita segnata dalla militanza politica, sindacale e giornalistica, dal carcere e dall’esilio. Una militanza vissuta a fianco degli operai e dei contadini, in particolare delle operaie e delle contadine, da segretaria della Camera del Lavoro di Voghera, Torino e Catania. Il racconto della sua vita si intreccia col contesto storico del suo/nostro tempo. Per Maria la politica non è «mestiere» o «voglia di comando», ma una visione del mondo e un accesso alla «sua personale libertà». Il partito, a cui si iscrive giovanissima, per lei non è solo una tessera, ma un modo di essere e «di agire in ciascuna circostanza della propria esistenza». E il giornale è «uno strumento politico» che unisce «i lavoratori dei campi, delle officine e quelli della penna» ma è convinta che è il socialismo «l’unica vera scuola». È una brava oratrice e le donne affollano i suoi incontri e conferenze per lo più clandestine. Non autorizzate. Nei rapporti delle prefetture è definita una «socialista intransigente». In carcere incontra Umberto Terracini e con Gramsci, compagno di partito, dirige il giornale “Grido del popolo”, organo dei socialisti piemontesi. Donna determinata, fiera, appassionata e anticonformista, Maria eredita la passione politica dal padre Ernesto che da ragazzo si arruolò nelle truppe di Garibaldi, e dal nonno che fu seguace di Mazzini e affiliato alla Carboneria. Dalla madre, Ernesta, eredita l’amore per la scrittura e per i poeti, classici e moderni, amore che trasmette alla figlia Goliarda. La madre la fa studiare e diventa maestra elementare. Insegna, ma per poco. Viene licenziata per condotta immorale, in quanto unita in “libera unione” con Carlo Civardi, prima, e Peppino Sapienza, poi, suoi compagni di vita e di lotta, perché madre di figlie/i fuori dal matrimonio e per le sue idee politiche e religiose. Motivi per cui sotto il fascismo la sua domanda di insegnare viene respinta. «L’amore è cosa così intima, così assoluta che il farne un atto pubblico, peggio ancora, ufficiale, è un profanarlo», scrive. Accetta come necessità, ma non per sé, il matrimonio civile perché «questa società, ingiusta e imprevidente, ancora non si crede in obbligo di provvedere ai nati di donna». Tiene comizi e conferenze non autorizzate contro la guerra e viene arrestata. «Prendi il fucile, gettalo per terra, vogliamo la pace, mai più la guerra» è il suo grido pacifista. La dittatura fascista la condanna all’isolamento con lo scioglimento dei partiti, dei sindacati e dei giornali d’opposizione. Il suo corpo si ribella, si ammala e finisce in una clinica per malattie mentali. Il compagno Sapienza entra nella Resistenza e la figlia Goliarda fa la staffetta. Con la fine della guerra Maria ritrova se stessa e con l’antica compagna Angelina Balabanoff riprende l’attività politica. Muore nella notte del 5 febbraio 1953, tra le braccia della figlia Goliarda. Al suo funerale Terracini, Saragat e Pertini e «un mare di garofani e compagni di ieri e di oggi». Dopo, per la figlia comincia «il lutto interminabile».
(Il Quotidiano del Sud, Rubrica “Io Donna”, 18 novembre 2024)