a cura di Gabriella Freccero
Il libro L’Iliade cantata dalle dee (Solferino 2024) di Marilù Oliva si può leggere come un reportage della caduta di Troia, raccolto da quelle che c’erano, a dominare e intercedere o a farsi massacrare dal furore di Ares. Nessuna ebbe una sua versione. Ora è il momento di dargliela.
Gli dèi amano i sacrifici, e rispondono a coloro che li invocano solo se vengono saziati nel loro inesausto bisogno di bere sangue umano. Così nell’ultima notte di Troia Creusa, moglie di Enea, sorella di Ettore, lasciata indietro nella fuga dal marito intento a trascinarsi sulle spalle lo stanco padre Anchise e a tirarsi dietro per mano il figlioletto Ascanio terrorizzato, fissa allucinata l’altare di Apollo in preda alle fiamme al centro della città, e vede cosa deve fare.
Coglie l’attimo in cui un destino si manifesta. Ora. Adesso.
Adesso, se lo farà, se si consegnerà a loro, le dee si ricorderanno di cantare i destini maledetti di chi soccombette quella notte a Troia e soprattutto di loro, le donne, le regine, le amanti, le figlie, le schiave e le serve dei belligeranti: i grandi e tronfi guerrieri Achei, ributtanti macchine di distruzione e stupro, violatori di patti, altari, giuramenti, trattati, templi, in nome del possesso violento e del puro istinto di saziare l’infinita ingordigia di beni; e dei loro avversari, i perdenti di una guerra dichiarata, come tutte le guerre, per uno scopo ridicolo – qui, in questa, per la riconquista di una donna rapita, ma ci sono stati e ci saranno motivi ancor più futili.
Una guerra già persa già molti anni prima, quando Troia cominciò a luccicare di ricchezze e suscitare cupidigie, perdendo la semplicità dei modi di vita passati, quando la comunità viveva povera e unita sulle rive dello Scamandro. Ma questa storia l’ha già raccontata Christa Wolf in Cassandra, capitolo secondo di tutte le guerre perse: gli errori degli sconfitti.
Creusa sacrifica la sua vita tagliandosi il delicato collo con la spada dimenticata a terra. Si lancia tra le fiamme che avvolgono l’altare, provando la breve sofferenza che ha visto negli occhi di tanti agnelli e giovenche sgozzati ritualmente, la sua vita davvero ridotta a poca cosa confronto alla perdita del regno, del rango regale, forse anche del marito che proprio se la scorda nell’impeto visionario della fuga, già presentendo l’approdo sulle coste italiche.
Così, strappa alle dee l’impegno di ricordare. Di ricordarle, le donne di Troia, quelle Troiane che Euripide farà lamentare lugubremente in scena come spettri e che prima di essere un informe bottino bellico senza volontà erano spose fiorenti, giovani madri, figlie luminose, vecchie sagge. Le dee narreranno, allora, in prima persona, la loro versione dei fatti, ma lasceranno anche posto alla versione delle donne di Troia, le cancellate, le zittite, le stuprate, le profetesse inutili, le trascinate per i capelli, le impazzite dal dolore.
Qualcuno vuole usarti, qualcuno vuole essere usato da te. Qualcuno vuole abusarti, qualcuno vuole essere abusato da te cantava Annie Lennox in Sweet dreams, e tutti capivamo che l’enigmatico testo parlava della caduta dei sogni, delle dolci illusioni, nell’agire e nel patire reciproco, nel fare male e nel farsene, o farsene fare.
Perché Troia fu un campo di battaglia dove uomini e donne, dee e dei, giocarono una partita infame con carte truccate e barando a tutto spiano, in cielo e in terra, ma poi il destino assegnò a ciascuno la sua parte di dolore e lutto. Vero, Odisseo, Agamennone, Achille? Sì, i ritorni difficili. O il nessun ritorno. Un mare di lacrime che non servono a lavare il fiume di sangue che rigurgitò dallo Scamandro gonfio di cadaveri sulla pianura arsa dalla battaglia.
Le dee non sono super partes, appoggiano chi gli Achei chi i Troiani. Per motivi personali, ovviamente.
Afrodite sta con i Troiani di suo figlio Enea, come Ares che è il suo amante e fa quello che gli dice lei.
Atena glaucopide parteggia per i Greci, come potrebbe dimenticare i fumi dei sacrifici che si innalzano dalla città che le hanno dedicato, dalla vasta Attica, da Delfi, da Epidauro. Il sovrano di quell’isoletta isolata e boscosa, Itaca, è il suo protetto speciale, il suo campione, la mente più sottile di tutte, anche se ha l’aspetto trasandato di un pastore di pecore.
Teti cerca di difendere suo figlio Achille da se stesso, impresa impossibile da portare a casa. L’eroe perderà in battaglia l’amante Paride, e l’ira funesta per gli sgarbi subiti da Agamennone gli ricadrà sul capo come una granata deviata di fuoco amico. Così si scende nell’Ade da stolti, oppure ci si racconta che era destino. E già. Chi si può opporre al destino.
Era non può sopportare il principe Paride da quando le ha negato il pomo della più bella assegnandola a Afrodite, come era da aspettarsi da un ragazzino senza giudizio incapace di apprezzare il fascino superiore di una donna di potere. Quindi, morte ai Troiani.
Per Eris, dea della discordia, la guerra di Troia è un puro godimento, un banchetto succulento, una torre di babà alla crema in cui tuffarsi, occasione quasi didattica di verificare quanto danno riescano a farsi gli uomini lasciati a loro stessi e alle loro grandiosamente puerili mire. Basta impegnarsi pochissimo, stuzzicandoli appena un minimo in battaglia, e poi lasciarli giocare alla guerra fino all’inconcepibile, all’irreparabile, alla catastrofe. Sempre un vero divertimento, anche conoscendo a memoria il finale.
Elena. Come si può parlare del sogno erotico di ognuno che l’abbia o non l’abbia vista, del più bel corpo che abbia mai posato il piede al suolo, del sembiante più citato raccontato descritto immaginato della storia. A lei questo privilegio ha causato solo danno, iniziando con il rapimento a dodici anni da parte di Teseo, che da vero rispettoso gentleman ateniese quale è non la stupra veramente, ma si limita a sodomizzarla, così la giovane può vantaggiosamente arrivare vergine al matrimonio con Menelao, tra eroi certi dispetti non si fanno, si sa che c’è un certo codice cavalleresco di mezzo. Passata di mano al biondo Menelao, deve essere talmente appagata dello status maritale che persino l’effeminato, hollywoodiano, profumato e inconsistente principe troiano Paride in visita a Sparta le deve sembrare un diversivo passabile, imbarcandosi con lui senza troppe domande verso la Troade per nuove avventure. Ma davvero Elena pensava che lì non l’avrebbero odiata per la spedizione punitiva nel frattempo decisa dai principi greci, che le principesse asiatiche le avrebbero aperto le braccia, le figlie e le nuore di Priamo l’avrebbero considerata una di loro? Che sia un po’ debole di mente, come spesso capita alle bionde? Elena a Troia è un simulacro, ma non come pensava e metteva in scena Euripide, prendendo la situazione alla lettera e immaginandola parcheggiata in Egitto presso il re Proteo, e concupita – of course – dal di lui figlio Teoclìmeno, mentre a Troia gli uomini si squartano per un fantasma. Elena a Troia è un ectoplasma ambulante, un corpo fisicamente vivo ma psichicamente morto, una donna senza legami con alcuno, a parte qualche incursione sempre più rara di Paride nel talamo principesco. Il pensiero di farla finita buttandosi dalle mura le gira intorno, la alletta. Forse la fine dell’esistenza corporea le può dare quel sollievo dal destino di diventare preda di qualcuno che non trova in nessuna terra e nessun porto. Morire. Dormire. Sognare forse. Elena a Troia teneva Shakespeare sul comodino?
Ma un’altra salute mentale vacilla in quegli ultimi spossanti cinquantuno giorni di una guerra durata dieci anni. Appartiene a Cassandra, la figlia di Priamo ed Ecuba, con un fardello più pesante della bellezza rapinosa da portare: il destino di profetizzare senza essere creduta. Viene tenuta a distanza dalla città e dalla sua stessa famiglia come una paria, una deficiente assoluta; non è infatti concepibile, se non nella follia più totale, che non si sia concessa al suo signore e dio Apollo, infrangendo l’obbligo sacerdotale di unirsi fisicamente e misticamente al dio veggente. Bisogna andare a letto col produttore per fare il film, da quando esiste il mondo, ma lei no, la campionessa di queerness, schifa il dono della vista e il dio che glielo porge. I futuri stupri subiti dal sacrilego Aiace di Oileo per oltraggiare il tempio di Apollo tramite la sua persona, e quello di Agamennone, fattala preda di lusso nella sua tenda, non saranno peggiori del possesso non realizzato dal dio: una mera conseguenza della caduta dalla sua condizione regale, un atto praticamente dovuto sulle donne nemiche. Niente di strettamente personale, semplice lurido ministeriale protocollo di guerra. Rifiutare un dio fu il peggio, l’irrimediabile, il resto brucia la pelle e l’orgoglio, ma non incenerisce una vita. Apollo sì, lei l’ha bruciata. Il dono della vista glielo ha dato ugualmente, se si è la prescelta è inevitabile, ma con una tara permanente in pegno. Sei una bugiarda, principessa. Tutta la vita deve sentirselo dire. Quindi adesso Cassandra si aggira come una disoccupata demente nei sordidi miasmi della Troia degli ultimi giorni, dove tutti aspettano la fine come una espiazione dovuta e troppo a lungo rimandata, il sollievo di un colpo di grazia liberatore sul collo appoggiato al ceppo. È possibile che le due reiette si siano viste? A palazzo, sicuramente, ma non in quel passarsi accanto occasionale, da vicine di condominio. Viste con quel posarsi dello sguardo della meraviglia, della prima volta che si vede una cosa, un essere.
Se è stato, è Cassandra che ha visto Elena, perché è il destino della spartana essere guardata, e di chi la vede sciogliersi nel cuore come un fiocco di neve. Per una volta si posa su Elena uno sguardo che non possiede, non consuma, non depreda; fisso, bloccato nel riverbero di quella bellezza sovrumana, lontana anni luce dalla insignificanza fisica di chi guarda, eppure intrecciando un dialogo senza parole, come un riconoscimento a distanza di un’essenziale identità, pur dalla siderale lontananza che separa la divina bellezza da tutto il resto. Sorelle di un errore nel dna della felicità, sorelle del senso di colpa, una di avere provocato – ma come poteva? – la guerra e l’altra del non averla saputa evitare anche avendola mostrata di continuo a tutti. Avranno corso come ragazzine nei boschetti sacri ad Afrodite, intrecciato l’un l’altra ghirlande di viole sui capelli odorosi di terebinto, ricordato la sera davanti al fuoco i giochi della loro infanzia dorata nei giardini dei palazzi reali, diviso la coperta ricamata ad arabeschi nelle notti umide della Troade? Mentre tutto intorno crollava, le loro disastrose vite hanno conosciuto un lampo di calore umano a scaldarle. È possibile. Ma non è scritto, non è tramandato. La caduta di Troia non contempla possibili resurrezioni a margine. Incontri come questo non fanno parte dell’Iliade già scritta. Possono trovare posto in quella ancora da scrivere, ucronica, fantascientifica o fantapolitica, che le generazioni di aede del qui e ora sentono l’impellenza di cantare, fermandosi ad ascoltare quella parte di canzone espulsa come un vangelo apocrifo dai libri canonici. Cantami o diva, sì, ma cantami tutto, di loro, di me che le ascolto oggi, dello Scamandro tornato azzurro. Sweet dreams are made of this.
(Eredibibliotecadonne.it, 14 ottobre 2024)