9 Giugno 2013
Repubblica

Torna la visionaria amata da Manganelli

di Valerio Magrelli

“La morte del padre”, il romanzo di esordio nel ’78 di Alice Ceresa.

Una famiglia borghese è alle prese con qualcosa d’ingestibile come la sepoltura di un patriarca. Quattro gli attori, madre, figlio, figlia maggiore e figlia minore (il personaggio autobiografico dell’autrice). Sette le sezioni, che esaminano il modo in cui ciascuno di loro vive la scomparsa del capofamiglia. Così, nell’introdurre La morte del padre di Alice Ceresa (et al./edizioni), Patrizia Zappa Mulas descrive la “radiografia poetica” di un funerale degno delle figure maciullate di Bacon. Uscito nel ’78, il libro fu accolto da un Alfredo Giuliani entusiasta: «Mirabile: c’è una pacata visionarietà che fa pensare a certi racconti magici e fantasmatici di Kipling e di Henry James».

Nata nel 1923 a Basilea, la Ceresa abbandonò la casa paterna a sedici anni, spostandosi tra il Sud della Francia e Zurigo. Qui strinse amicizia con molti fuoriusciti, tra cui Comencini, Fortini e Silone, che nel ’50 l’avrebbe chiamata a Roma come redattrice di Tempo presente. Solo due i suoi titoli pubblicati, oltre a quello già citato: La Figlia prodiga, 1967, e Bambine, 1990. L’esordio fu esplosivo. Coronato dal Pre- mio Viareggio, il volume fu apprezzato da Parise, Vittorini, Calvino e in particolare Manganelli: «Alcuni, e io tra questi, lo trovarono un libro affascinante, per certi versi unico».

All’origine di tanto successo, stava la qualità del suo stile di “emigrata”. Dopo aver vagabondato fra tedesco e francese, questa lettrice e traduttrice coltissima scelse infatti un italiano del tutto personale, «che ha un inconscio fondo germanico » (Zappa Mulas). Inversioni sintattiche, interruzioni, rallentamenti ritmici, disposizioni abnormi di articoli, avverbi e digressioni, producono una prosa scandita, notava Manganelli, quasi in versetti. Quanto al tema della sue opere, è presto detto: l’unica cosa che la interessava, era mettere in luce l’ineguaglianza femminile, analizzarne l’inesorabile sviluppo. Infatti, è ancora Giuliani a osservarlo, la Ceresa «sembra la più dotata e insieme la più trascendentale esploratrice di quel fenomeno che è il disastro di crescere».

Il disastro di crescere e di morire, viene da aggiungere di fronte al libro appena ripubblicato, poiché anche la scomparsa assume qui un aspetto speciale. Secondo la curatrice, il colpo di genio del racconto consisterebbe nell’intuizione che la morte non sia un distacco istantaneo, bensì un lento processo. Ecco perché il defunto, “impossibilitato a ogni personale intervento nel procedimento altrove svolto intorno alla sua persona, si trova finalmente indifeso alla mercé dei vivi”. Così, se nella sua prima notte di morto il padre vaga ancora «nei meandri del suo proprio corpo alla ricerca di una impossibile uscita», nella seconda, egli abbandonerà anche l’ultima occupazione di sé per venir meno «come entità munita di un proprio io». La morte, insomma, sopravviene «come una glaciazione », una ritrazione e una sparizione definitiva.

Le immagini si susseguono, stupefacenti: «Adesso la figura del padre stranamente inizia una sua lunga serie di metamorfosi molto simili alle laboriose spoliazioni di certi rettili della famiglia degli anellidi». Il suo corpo, cioè, emigrerà per sempre, travasato nel ricordo altrui. Di più: l’elaborazione del lutto corrisponderà a una vera e propria operazione cannibalesca: «Il padre viene così incorporato un poco per volta senza che sia possibile, poiché effettivamente di una specie di materiale pasto si tratta, evitare macinanti movimenti della mascella e perfino schioccare di labbra, nonché successivamente appunto le pigre e impartecipi pause di quella che senz’altro si dovrebbe chiamare l’invisibile e personalissima digestione».

Nella scrittura di Alice Ceresa l’intensità è proporzionale alla brevità. Forse ciò spiega perché il suo modello letterario fosse un pittore, Paul Klee, che fece della concentrazione un’arte dello sguardo.

Print Friendly, PDF & Email