di Franca Fortunato
La storia delle donne è fatta da tante vite “oscure”, “sconosciute”, come le chiama Virginia Woolf, fino a quando qualcuna/o dal buio del tempo, che tutto rimuove e conserva, non le riporta alla luce. È quello che ha fatto Emilio Grimaldi con il suo ultimo romanzo, Una rosa per Teresina (Officine Editoriali da Cleto, 2022), liberamente ispirato alla storia vera di una donna calabrese, portata via alla sua creatura e rinchiusa in manicomio. Il libro è nato grazie al nipote di Teresina che negli anni ha raccolto «notizie, documenti, visitato archivi storici» e ha consegnato tutto all’autore perché scrivesse la storia della nonna, del nonno e di sua madre Iolanda, la quale ha ignorato la vicenda di sua madre fino all’età di settant’anni. «Quanto stupore e quanta rabbia – scrive il nipote – abbiamo provato nel leggere la cartella clinica di nonna Teresina!». Il libro, in un intreccio storico della Calabria e dell’Italia tra fine Ottocento e primi anni del Novecento, ricostruisce la storia di Teresina Lucà e di Eugenio Gimigliano, suo compagno di vita, appartenente ad una delle famiglie più ricche e nobili di Belcastro. Lei giovane donna dagli «occhi verdi come il mare» viene da una famiglia benestante di Petilia Policastro. Resta incinta quando ancora non è sposata e non lo sarà in seguito, conviveranno con l’approvazione delle rispettive famiglie. Teresina segue il suo compagno e padre dell’unica sua figlia, Iolanda, nei vari trasferimenti come cancelliere tra la Pretura di Catanzaro, Petilia e Gasperina, fino a quando, in piena Prima guerra mondiale, ancora giovane, egli si ammala e muore. È con la vedovanza che Teresina, come tante altre infelici che incontrerà nel manicomio di Girifalco, avrà la sventura di sperimentare la psichiatria di allora, divenuta strumento di controllo da parte degli uomini del corpo e della vita delle donne. Garante di un “ordine sociale” che espelle, internandoli nei manicomi, donne e uomini che non rientrano pienamente nella “norma”. Non è una donna “normale”, anzi fa scandalo, una vedova sola con una figlia piccola che porta il suo cognome e non quello del padre; fa scandalo una donna che ha scelto di vivere in un hotel, che veste elegante, che vive con i soldi che le ha lasciato il suo compagno, che lascia il lavoro in una sartoria perché non vuole «cucire divise per la guerra». Dicerie, invidie, malelingue la denunciano ai tutori della “morale” e lei, incredula e ignara, si ritrova rinchiusa in manicomio per «indebolimento mentale». Invano grida di stare bene e di volere solo tornare da sua figlia, che ha affidato a un parente. Non viene ascoltata, non viene creduta da chi – medici, sindaci, direttori dei manicomi, prefetti – ha il potere di chiuderla in manicomio sostenuti da pseudo-teorie psichiatriche lombrosiane intrise di pregiudizi, sessismo e odio verso le donne. Uscirà dal manicomio quattro anni dopo chiusa in una bara, morta col nome della figlia sulle labbra. Aveva solo quarantun anni. Una storia triste, una verità tragica, e una figlia che era cresciuta pensando che la madre l’avesse abbandonata e il padre non riconosciuta. La storia, nonostante tutto, ha un lieto fine. Certo Teresina non potrà mai avere indietro la sua vita, la verità non può cancellare l’ingiustizia subita, il dolore inflitto a lei e alla figlia, ma resta la consolazione di una figlia che ha potuto ricongiungersi alla madre e riconoscersi in quel padre che morendo non si era dimenticata di lei. Una rosa per Teresina «non è un libro che chiede giustizia» ma fa giustizia, rende giustizia alla verità, a una donna, a una madre sottratta alla propria figlia.
(Il Quotidiano del Sud, 17 settembre 2022)