AUTODETERMINAZIONE: UN OBIETTIVO AMBIGUO
Non esprime tutto il movimento delle donne la proposta di legge che alcuni gruppi femministi hanno presentato in parlamento: non esprime ad esempio noi che, pur vivendo la contraddizione dell’aborto, non vogliamo che questa nostra sofferenza venga confermata e legiferata.
È evidente che l’abolizione dell’aborto (come della prostituzione) non si ottiene attraverso la sua regolamentazione: non è vero che la legalizzazione e il riconoscimento ufficiale in comma e codicilli rende più facile la modificazione di queste realtà e delle loro cause. L’unica cosa che vogliamo da una legge è la cancellazione del reato, dunque la depenalizzazione.
Allora perché alcune donne, che hanno scelto di muoversi sul piano della legge, non si sono limitate a proporre e a sostenere la depenalizzazione del reato d’aborto? Forse sono convinte di poter usare gli strumenti del potere per scalfirlo e per ritagliare alle donne uno spazio che la società non concede?
Esiste un punto in cui le necessità del sistema patriarcale e capitalista sembrano coincidere coi bisogni delle donne: sono proprio questi i momenti in cui occorre far chiarezza sui nostri reali bisogni. Le donne del movimento che nel proporre questa legge sperano di dare maggior potere e forza a tutte le donne, si trovano di fatto a sostenere un piano di regolamentazione delle nascite che non ci appartiene. Inoltre si basano su un’analisi ancora essenzialmente di tipo economicistico : autodeterminazione intesa come riappropriazione da parte delle donne di quella che si può considerare la loro produzione specifica, cioè i figli. Tutto questo le costringe a farsi carico di una serie di conseguenze, le cui ambiguità non portano a reali passi in avanti per il movimento. I problemi riproposti sono riassumibili in questo modo:
a) subordinazione agli interessi dei partiti e della logica parlamentare;
b) affidamento a una regolamentazione esterna, quella dello stato e delle istituzioni, in palese contrasto col principio, più volte proclamato, dell’autodeterminazione;
c) necessità, una volta che esiste una tale regolamentazione, di impiegare energie in una lotta essenzialmente difensiva e dipendente da tutte le istituzioni, ospedaliere, giudiziarie, amministrative, in un momento in cui il movimento delle donne ha bisogno di tutta la sua autonomia per approfondire i contenuti specifici su cui è nato e per acquistare forza.
Ma, se questo è l’aspetto più vistoso della contraddizione, trascurabile solo per le donne che considerano la loro lotta un momento specifico interno all’unità di classe, non c’è dubbio che la presentazione di questa legge che dovrebbe rappresentare la volontà delle donne sulla questione dell’aborto, implica conseguenze molto più gravi:
a) divide le donne e riduce la credibilità della loro lotta. Non interrogarsi sul problema della sessualità, del rapporto uomo donna, e scegliere di partire dalla maternità come condizione sociale generalizzata delle donne, significa di fatto essere costrette a proporre come obiettivo di massa la negazione della maternità stessa. È la lotta più impopolare contro una funzione che, contradditoriamente, è stata a un tempo motivo di oppressione ma anche di sopravvivenza e di realizzazione, sia pure simbolica ed alienata (la vita del figlio al posto della propria, la maternità al posto di ogni altro fare). I gruppi che hanno firmato questa proposta di legge sull’aborto finiscono in realtà per sostenere una ” liberazione in negativo “, intesa come ribellione della donna alla funzione riproduttiva, in quanto storicamente castrante; e nell’aborto libero urlato nelle piazze proclamare il blocco e la sospensione del desiderio di maternità. Ma in noi esiste anche il desiderio di non dover desiderare l’aborto. La decisione di mettere al centro della nostra ricerca il rapporto uomo-donna, l’analisi e la modificazione della nostra sessualità, se ha comportato in una fase iniziale la messa tra parentesi del problema della maternità e della procreazione, ci è servita comunque a evitare di innalzare come bandiera della liberazione la negazione di un aspetto della nostra materialità che può essere discusso, modificato ma non certamente negato. Nessuna infatti può escludere che, sciolta la dipendenza dalla sessualità maschile, il corpo della donna possa esprimere questa capacità biologica in modo totalmente diverso.
b) crea confusione e diffonde un’opinione fuorviante del concetto stesso di autodeterminazione, rispetto al significato che esso ha assunto già da tempo per il movimento delle donne.
La confusione tra sessualità e maternità, l’identificazione del corpo della donna con la funzione procreatrice e il ruolo di donna-madre dell’uomo, fanno sì che lo slogan ” autodeterminazione/gestione del proprio corpo ” applicato alla battaglia per l’aborto, suoni molto ambiguo.
La procreazione che conosciamo ha subito una tale violenta integrazione nella sessualità maschile che proporre di gestirla di regolamentarla è come proporre di lottare dentro l’alienazione anziché liberarsene. “Autodeterminazione” a proposito di aborto può pertanto avere solo un significato molto restrittivo, quello di rivendicare alla donna la possibilità di difendersi, contro gli interessi e/o il disinteresse degli altri (mariti, compagni, medici, preti, leggi, ecc.).
Lo stesso vale per l’aggettivo ” libero ” : aborto libero vuol solo dire libero dalla sanzione, non affermazione di una pienezza di sé, conquistata attraverso l’aborto. Aborto libero solo perché ” liberatorio ” da un male peggiore.
E se in questo caso parlare di libertà di scelta rispetto al proprio corpo e alla propria sessualità è un autoinganno, ci pare anche un inganno credere di difendere realmente le donne “concedendo” per legge illimitati limiti: la proposta Pinto-Corvisieri a noi risulta terroristica verso le donne stesse, perché scavalca, senza incertezze e timori, tutto il dramma legato all’aborto e la disperazione che sola può spiegare l’interruzione di gravidanza, e scarica sulla donna lasciata sola a decidere, la violenza sessuale, sociale ed economica di tutta la società.
Un gruppo di donne di Col di Lana – Milano
I TRE TESTI CHE SEGUONO SONO GLI APPUNTI SCRITTI DI ALCUNI DEI GRUPPI IN CUI SI E’ ARTICOLATO IL COLLETTIVO DI VIA COL DI LANA 8 PER RIFLETTERE SULLA PRATICA POLITICA. IL LAVORO DI TUTTI I GRUPPI E’ STATO DISCUSSO IN UN INCONTRO DI DUE GIORNI SVOLTOSI A MILANO IL 12/13 NOVEMBRE 1976.
OSANDO FINALMENTE DUBITARE…
Ci siamo incontrate in questo gruppo nato con gli altri sulla crisi del collettivo cariche di aspettative, e da queste partiamo.
È comune in noi l’urgenza di riverificare le pratiche fatte, per cercare di capire quello che ci ha effettivamente modificato e quello che invece è risultato un freno.
Il nostro è un gruppo eterogeneo, non tutte abbiamo le stesse aspettative. In qualcuna sembra prevalente il desiderio di acquistare sempre maggiore conoscenza (come ad esempio attraverso le pratiche di tipo analitico fatte in questi anni), con una finalità puramente intellettuale quindi. In altre l’esigenza di costruire spazi che garantiscano un minimo star bene, vivendo in modo sempre più completo in rapporto con le altre donne.
Per la maggior parte di noi c’è il bisogno di trovare il nesso tra la modificazione individuale ed il trasferimento di questa alla pratica collettiva. Insomma il bisogno di riallacciarci ad un progetto politico più ampio che ci faccia uscire dal chiuso delle nostre pratiche per permetterci di incidere in modo concreto sulla realtà. La modificazione individuale, il crearsi di spazi anche minimi che ci consentano di stare meglio, la separazione dal mondo dell’uomo, rischiano di diventare pericolosa illusione e di essere scambiate per la finalità politica del movimento invece che tappe del nostro progetto di liberazione.
Il sintomo più evidente della nostra crisi è appunto la paralisi del collettivo, che dovrebbe essere il momento più specificatamente politico e che invece sembra diventato vuoto di significato.
Il nostro è un gruppo di donne che vengono da pratiche diverse. Eppure in tutte noi è sorta l’esigenza di confrontarle finalmente. Per la prima volta abbiamo il coraggio di uscire dalla confortante sicurezza che la pratica che ognuna di noi ha fatto, sia la sola legittima e vera, osando finalmente dubitare, per cercare assieme, con un riesame critico la soluzione ai nodi che hanno causato la paralisi.
Siamo partite analizzando le pratiche fatte da noi in questi anni: autocoscienza, inconscio, collettivi, Cherubini, Cramp.
Autocoscienza
Nella pratica del piccolo gruppo di autocoscienza, dopo un inizio molto bello ci siamo accorte che anche al suo interno si creavano ruoli di potere, proiezioni madre-figlia e tutto un intersecarsi di dinamiche di gruppo che di fatto impedivano di andare avanti, in quanto ormai nessuna di noi riusciva più a entrare in rapporto reale con le altre. (Ognuna di noi era diventata l’attaccapanni delle proiezioni altrui e il tutto avveniva nella reciproca complicità.)
– Eravamo tutte nel pallone più nero.
– Si erano creati dei grovigli inestricabili che però io volevo risolvere con quelle persone lì con le quali si erano creati e non andare nel gruppo dell’inconscio.
– Tentando un rapporto più analitico con una donna del gruppo con la quale ero in rapporto più profondo, mi si aprivano degli spiragli sull’inconscio, che mi creavano grande angoscia senza darmi la possibilità di modificarmi.
– In questo casino angoscioso sono finita in analisi individuale con una donna, nella quale mi identificavo.
– L’autocoscienza è stato un momento molto stimolante, carico e vivo che mi ha fatto sentire l’urgenza di affrontare a livello profondo alcuni problemi che mi erano via via maturati da quando ero venuta a Milano. Così sono entrata in analisi, con una donna.
– Anch’io sentivo prevalentemente un bisogno d’analisi: non avevo fatto gruppi di autocoscienza e il mio primo contatto col femminismo è stato un gruppo dell’inconscio, dove ho scoperto il movimento delle donne come rapporto fra donne e non ideologia femminista.
Inconscio
– Quando stavo nel gruppo dell’inconscio avevo la sensazione che l’interpretazione dei comportamenti fosse delegata di fatto alla Lea o a qualche altra e che il progetto più complessivo che conteneva questa pratica fosse chiaro soltanto a loro.
Le reciproche fantasie creavano nel gruppo figure fittizie che non venivano smascherate. Infatti la conoscenza reale di una persona con la quale avevo fatto il gruppo per un intero anno è avvenuta quest’estate durante la vacanza dove la quotidianità impediva la copertura ideologica.
– Per me questo si è verificato il primo anno; nel secondo anno, ho sentito una reale messa in discussione del ruolo della Lea da parte del gruppo come un’interazione tra gruppo e leader che produceva una modificazione. Però vivevo la Lea diversamente nel gruppo e nel collettivo: nel collettivo si ripeteva il vecchio rapporto, lei per un lungo periodo era la portavoce del gruppo, noi non riuscivamo a trasferire la pratica dell’inconscio nel collettivo. Nel gruppo invece avevo esteso il mio riferimento e bisogno di riconoscimento su un numero più allargato di persone, poiché questo era il luogo dove il rapporto diventava sempre più paritario, nel senso che diventava sempre più la pratica di un gruppo e non il gruppo della Lea.
– Secondo me la pratica dell’inconscio anche se produce modificazione resta però un’esperienza all’interno di un gruppo e non è possibile trasmetterla al collettivo.
– In fondo quello che abbiamo cercato di soddisfare in tutti i gruppi, dall’autocoscienza all’inconscio, è stato ancora il bisogno di riconoscimento, forse questo ci ha impedito di vedere la finalità politica del movimento, però secondo me non è scandalizzante nella misura in cui dovevamo vincere una negazione storica totale e prima di eleggerci a soggetti politici dovevamo
riconoscerci un’identità individuale.
Identità
– A proposito dell’identità io credo che oggi sia vero che le donne hanno un’identità precisa.
– Mi sembra di poter affermare che oggi, in quanto soggetti storici, abbiamo acquisito un’identità politica e sociale (siamo o non siamo un movimento di liberazione?), ma per quanto riguarda l’identità individuale (psichica e sessuale) sono molto lontana dal sentirmi interamente soggetto, anche se faticosamente comincio a mettere assieme dei pezzetti di me.
– Io mi sento un’identità individuale solo quando ragiono e capisco, nel senso che sento una sicurezza di me soltanto quando posso analizzare e interpretare, trovando delle risposte razionali che però mi impediscono di conoscere e di dar sfogo alla mia emotività e sessualità.
Nella mia storia mi è sempre stato chiesto di ragionare, di capire gli altri e questo mi ha portata a negare la mia emotività e i miei desideri. Lo stesso processo si è verificato nella nostra pratica, perché anche se ora l’oggetto dell’analisi sono io, riproduco lo stesso meccanismo di razionalizzare e non riesco a modificarmi.
Modificazione
Mi sembra però che dovremmo distinguere la razionalizzazione, che è proprio una forma di autodifesa ed esorcismo, dall’analisi che invece scalza le difese della razionalizzazione; mi pare che alcune pratiche del movimento ci abbiano abituate ad un’attenzione costante alle difese e quindi in qualche modo abbiamo acquisito la capacità di scalzarle per arrivare alla modificazione.
– per me modificazione può già essere rifiutare alcuni condizionamenti, liberando in tal modo l’emotività.
– Io per esempio abbandonavo le persone per paura di essere rifiutata; presa coscienza della mia coazione a ripetere questo meccanismo, ho deciso ad un certo punto di affrontare questo problema e di fare eventualmente i conti con un rifiuto reale. Questo probabilmente mi è stato possibile perché ho un bisogno meno spasmodico del riconoscimento degli altri (barlumi di identità).
– per me modificazione vuoi dire poter essere più cose, non tollero la noia di ripetermi: vorrei essere intellettuale e corporea, in effetti non voglio rifiutare quello che sono, ma non sopporto la mia coazione a ripetermi; insomma intendo la modificazione come ampliamento.
– Io non rinnego me stessa perché è assurdo che cerchi di costruirmi su un nuovo modello, ho scoperto di avere dei lati non sviluppati.
– Rispetto alla modificazione mi sono accorta che mi è stata possibile attuarla quando quello che facevo partiva direttamente dai miei desideri. Quando invece tentavo di superare lo scarto che sentivo tra me e l’ideologia, riuscivo solo a star male, cioè sentivo l’ideologia come una morale imposta ed è quello che probabilmente mi fa sentire a volte con un piede fuori, quando non voglio farmi violenza.
– Mi domando a questo punto se la nostra pratica ci consente il diritto di rimanere noi stesse con le nostre specificità, in che modo cioè c’è spazio per queste cose rispetto all’ideologia.
Ideologia
– Mi sembra che questa domanda nasconda paura. Per me modificazione ha voluto dire acquisire maggior sicurezza. Ho un grosso rifiuto per il vivere ideologicamente, non chiedo se c’è spazio, me lo prendo.
– Ci si lamenta tanto dell’ideologia, ma io sento che affermare di sentirsi col piede fuori vuoi dire di nuovo avallare l’ideologia, nel senso di avere nella propria testa il modello di qualcuna che i piedi li ha dentro tutti e due. La mia possibilità di sentirmi dentro è l’aver capito che c’è spazio per rifiutare eventuali modelli.
– Una delle prime cose che mi aveva affascinato del femminismo era proprio l’affermare il rifiuto all’ideologia che ci passava sulla testa, il partire da noi stesse, poi dopo alcuni anni di pratica mi sono sentita un’altra volta sommersa dall’ideologia; mi sembrava che una nuova morale fosse nata, avevo davanti a me il modello ideale e fantasticato della femminista che ha chiuso con l’uomo e con il mondo degli uomini.
– Mi chiedo a questo punto qualè il confine tra progetto politico e l’ideologia. Ad esempio, io sentivo l’anno scorso che il dover essere (la norma) era la sessualità tra donne. Quindi, da una parte lo vivevo come una nuova morale, dall’altra però
aveva anche il significato più profondo di indicarmi la modificazione.
– Secondo me l’avere confuso la finalità politica del movimento, con un momento di questo progetto, che implica la sepa razione anche radicale, mi creava l’angoscia di un incubo senza soluzione di un universo tutto femminile.
– Sento nel movimento tutta una serie di cose in cui mi riconosco, ma altre le sento ideologiche. Questo provoca angoscia in molte donne che pensano di dover fare cose a cui si sentono estranee, forse è questione di rispettare i tempi di ognuna.
Si può arrivare agli stessi risultati con strade diverse.
– Mi chiedo se c’è spazio nella nostra pratica per un reale confronto, in quanto ho l’impressione che ci siano comportamenti considerati di serie A e di serie B. Ci sono molte donne che vivono l’ansia profondissima di adeguarsi a modelli di comortamento che non sentono. Secondo me il confronto reale avviene soltanto fra persone che si vedono vivere; mentre raccontarsi la propria vita è un atteggiamento che intacca solo la superficie dell’esperienza, in quanto attraverso la parola passano la seduzione, le illusioni ecc.
Collettivo
– Rispetto al collettivo non ci vedo la possibilità di confronto, ma solo di scontri e rivalità.
– Il confronto avviene sul piano del rischio individuale, per cui in genere nel collettivo si ha la tendenza ad evitare il rischio, perché il collettivo non può garantire come un piccolo gruppo, dove ci sono persone del cui affetto si è sicure.
– Io sento il collettivo impersonale, nel senso che non mi sembra ci sia possibilità di dialogo mentre nel piccolo gruppo è più difficile che accada, perché il confronto è possibile fino in fondo.
Mi sembra che molta ideologia nasca sul fantasticato più che sul detto.
– Infatti se avessi fatto in collettivo il discorso sulla sessualità di ieri sera, gli equivoci che in questo gruppo sono subito stati chiariti, sarebbero restati e avrebbero fatto sì che le altre mi fantasticassero “come colei che ha scelto l’omosessualità”.
– Sento il collettivo come un luogo inesistente, per esempio mi vengono in mente le nuove e tutti i diversi piani di comprensione che un discorso può avere.
(A questo punto una donna che per la prima volta partecipa a una riunione fa il suo primo intervento e dice : ” Quello che voi sentite nel collettivo, io lo sento ora con voi”…)
– Per me il collettivo è stata la garanzia dell’esistere rispetto al politico e al sociale, che era quello che avevo sempre cercato nel far politica nei gruppi della sinistra e che non ero mai riuscita a vivere. Nonostante la paralisi e tutte le difficoltà vissute, ho sentito che lì in certi momenti, le donne riuscivano insieme a uscire dall'” impasse ” e a prendere delle decisioni politiche.
Per esempio le sere in cui è iniziato e si è decisa collettivamente la divisione in piccoli gruppi, con modalità stabilite insieme, per portare avanti la discussione sulla pratica politica, ho ritrovato il senso politico del collettivo.
– Io non sono d’accordo. Per me il collettivo mi riporta ai vecchi modi di fare politica.
– In qualche modo il collettivo, così com’è stato prima dell’inizio di questi gruppi, risente veramente di retaggi dei vecchi modi di far politica, con in più dentro una grossa confusione creata proprio dalle cose che in questi anni abbiamo pensato.
Per esempio tutta una serie di acquisizioni nate nei piccoli gruppi (di discussione sulla pratica) non sono state trasferibili al collettivo, anzi hanno come impedito a molte donne di vivere il momento del confronto più allargato. Ciascuna di noi, con la, propria verità, che poneva un velo di nebbia tra la presa di coscienza individuale e il progetto politico del movimento. Per cui qualsiasi momento politico (collettivo) veniva svuotato di significato.
– A un certo punto, dopo aver frequentato saltuariamente per alcuni anni il collettivo di Cherubini, ho sentito che avveniva al suo interno come una caduta della tensione politica, nel senso che l’attenzione si era talmente spostata sull’analisi dei vissuti e in particolare di quello che accadeva lì nel momento specifico, da farmi perdere di vista la finalità politica del movimento.
Mi è venuta voglia di incontrare le donne che stavano facendo nuove esperienze in realtà assolutamente diverse (scuola, fabbrica e quartiere) da quelle in cui mi ero formata io. Nacque così il collettivo di donne che si riuniva al CRAMP.
II progetto comune inizialmente era quello di confrontare le pratiche che ognuna di noi faceva nei propri collettivi. In realtà era molto difficile, perché le donne arrivavano numerosissime e confrontarsi in cento e più persone diventa veramente impossibile. Per cercare di sbloccare la situazione a un certo punto abbiamo tentato di darci un lavoro comune, e siccome la maggior parte di queste donne usciva da organizzazioni della sinistra oppure vi era ancora dentro, ma contestandole, il punto di partenza fu proprio l’analisi del nostro rapporto con la politica tradizionale e la nuova pratica femminista. Purtroppo dopo il primo anno, in cui fu possibile fare un certo lavoro e portare avanti un grosso discorso di crescita, forse più a livello individuale che collettivo, cominciarono ad arrivare ” le sparviere delle organizzazioni ” mandate lì a portare la linea. Il risultato fu che le organizzazioni persero molte delle loro militanti che in questo incontro-scontro andarono in crisi, ma il lavoro che si voleva portare avanti divenne sempre più frammentario.
Il collettivo si era trasformato in un campo di battaglia, quando cominciarono ad arrivare ” le cherubine “, immediatamente vissute come i fantasmi del femminismo puro. A questo punto non è stato più possibile comunicare, nel senso che l’unica dimensione era lo scontro. Questa esperienza, che all’inizio fu vissuta da me come fallimentare, ripensata a distanza di tempo mi sembra quasi un successo. La maggior parte delle donne che in quel luogo presero coscienza, hanno portato avanti comunque il discorso anche se con pratiche diverse e in ambiti diversi.
Mi rimane sempre la voglia che si possa ancora trovare un luogo dove sia possibile realizzare l’ipotesi di confronto e di scambio che era stata all’origine del Cramp e che ancora oggi rimane senza risposta.
Separazione
– Ho cominciato a frequentare il Cramp quando da poco mi ero avvicinata al femminismo, per cui sentivo un’enorme attrazione.
Ero una donna con un passato di emancipazione con casini, figli, lotta politica, non intendevo che il femminismo avrebbe dovuto essere una separazione totale da tutto, piuttosto un’espansione, rapporti migliori e modificati con le donne, non solo con le poche del gruppo.
Inteso così l’avrei vissuto come ghetto, mentre la grande scoperta del confronto collettivo tra donne mi era sembrata andare nel senso che ogni donna potesse essere accettata con la sua storia e specificità.
Le mie modificazioni, quindi, dovevano essere in rapporto proprio alla mia storia e non a dei modelli precostituiti a cui adeguarmi.
Purtroppo è successo che questi modelli diventassero dei riferimenti a cui adeguarsi, piuttosto che degli stimoli alla modificazione, per cui per la mia storia ho sentito impossibile una adesione totale, ho cominciato a sentirmi con un piede dentro e un piede fuori.
– Mi sento nella stessa situazione, ma con una grossa ambivalenza verso chi vive oltre che teorizzare, la separazione: attrazione per una fantasia di tentare l’impossibile, che per me è la separazione totale dal mondo dell’uomo, e che nello stesso tempo vivo come pazzia; repulsione per la conflittualità che questo mi crea rispetto alla mia vita quotidiana, figli, lavoro, ecc.
– Trovo che la separazione possa al limite essere una scelta più comoda, che esclude la lotta e il confronto. Per quello che riguarda la sessualità modificata, mi sembra che nei rapporti tra donne manchi l’erotismo e la passione.
– Per la mia esperienza ho vissuto la separazione a periodi alterni nella mia vita, non perché mi si ponesse davanti come modello ideologico, ma perché proprio in quei momenti le mie contraddizioni potevano essere chiarite solo separandomi dal rapporto con l’uomo. Naturalmente era solo una separazione di tipo sessuale, perché in realtà rimaneva tutto il rapporto col mondo del lavoro, insomma con la società maschile. Questo non voleva dire però automaticamente che io riuscissi a vivere rapporti di corpo con le donne, proprio perché non riuscivo ad accettare la sessualità come dover essere. Mi è capitato invece di avere un rapporto sessuale con una donna quando non me lo sono più posto come imperativo categorico della nuova morale femminista.
Solo allora è nato in me concretamente il desiderio. È stata un esperienza molto bella, ma ancora tutta da analizzare. Sono consapevole che probabilmente con l’uomo nelle stesse condizioni mi sarebbe scattato l’innamoramento, con questa donna no. Mi viene in mente che forse questo è stato causato dal fatto che le richieste che faccio all’uomo sono quelle di confermarmi totalmente, e sento che questo passa attraverso l’identità sessuale dell’uomo stesso. Ad una donna non mi sentivo di fare nessuna richiesta perché nel rapporto speculare mi veniva rimandata l’immagine delle mie stesse mancanze.
La chiusura dei gruppi ci ha colte di sorpresa, lasciandoci ancora molti nodi in sospeso da affrontare. A partire da questo riteniamo sia necessario approfondire ancora questi appunti tra di noi (piccolo gruppo), in modo da dare un contributo più consistente alla discussione all’interno del collettivo.
Antonia, Donatella, Elisabetta, Franca, Giancarla, Giovanna, Giuliana, Ida, Maria Luisa, Renata, Rosalba, Rosy
LA MODIFICAZIONE PERSONALE
E L’AGIRE POLITICO
Diversità – Confronto – Implicazione tra le pratiche
I rapporti personali tra le donne e le differenti pratiche producono conoscenze e modificazioni che, raramente e con fatica diventano acquisizioni politiche collettive. Di conseguenza: si svuota di contenuti il progetto comune, mentre si esaltano e si generalizzano i tempi personali e le scelte specifiche, limitate di un singolo gruppo.
L’atteggiamento più critico di ognuna rispetto alla pratica fatta finora, permette di affrontare concretamente tra di noi la differenza evitando lo scontro ideologico e rintracciando, quando è possibile, unificazioni e contraddizioni.
L. e L. sottolineano l’importanza ma anche i limiti della pratica dell’inconscio: possibilità di far prendere coscienza delle ragioni profonde della sessualità – messa tra parentesi di un fare materiale con le donne; attenzione alle dinamiche del gruppo, scarso interesse per la diversità delle posizioni politiche.
S. ha tentato di non separare il suo lavoro con le donne dalla lotta politica all’interno della scuola. Per questo ha fatto riferimento al collettivo di via Rugabella che si propone un’ottica politica complessiva e organizzativa rispetto alle molteplici contraddizioni sociali. Ora però ha il dubbio di non aver tenuto conto effettivamente delle donne e della specificità di una pratica che vuole partire dalla sessualità e dalle storie personali.
L. viene dall’esperienza di un consultorio per le donne. Tentativo di allargamento della coscienza politica tra donne diverse, difficoltà a tenere insieme i vari momenti in cui si svolgeva il lavoro: autocoscienza – discussione politica e organizzativa,
pratica del self help. Le difficoltà maggiori sembrano essere nate proprio sul self help, che tirando in ballo il corpo, presupponeva attenzione alle fantasie sessuali e analisi dell’inconscio.
A. viene da un gruppo di autocoscienza. Il collettivo di via Cherubini le ha dato l’impressione di un gruppo chiuso nella specificità della sua pratica e del suo linguaggio. Si tenta un’analisi del rapporto tra diversità di pratica – competenza – normatività linguistica – potere: ogni pratica focalizza un aspetto, sceglie un’ottica, instaura un linguaggio, accentua la separazione rispetto alle donne provenienti da altre pratiche o che non hanno fatto alcuna pratica. L’intolleranza per il
” diverso” può prendere il sopravvento e dar luogo a uno scontro ideologico quando non si è fatto il possibile per cogliere nel diverso la molteplicità delle contraddizioni che siamo state costrette a mettere tra parentesi per privilegiare un’ottica parziale.
Quando non si è più disposte a mettere in discussione la propria pratica e si perde ricettività rispetto al diverso, la conoscenza acquisita diventa competenza su un ambito parziale di problemi (l’aborto, la sessualità, la medicina) e di conseguenza normatività ideologica, linguistica, potere.
Lo stesso si può dire per la diversità che nasce dalle storie personali, dalla maggiore o minore continuità nel lavoro politico, dal differente significato che assume per ognuna di noi l’agire politico. Si fa l’esempio delle donne che nel gruppo vengono indicate come ” figure di potere”: la partecipazione attiva alla elaborazione del discorso politico, la responsabilizzazione rispetto alle possibilità di tradurlo in una pratica, se non è sempre esplicitato il rapporto tra atteggiamento politico e storia personale, producono una personalizzazione eccessiva della pratica (identificazione tra pratica e persona che se ne fa portatrice, e quindi attribuzione di potere alla stessa).
L’ideologia e la militanza si riproducono anche tra di noi quando non si riesce a mettere in dialettica storia personale e agire politico, modificazione personale e coscienza collettiva. Anche una pratica incentrata sulla sessualità può diventare ideologica.
Nella mia esperienza – dice L. – l’esaltazione del ruolo pubblico è in parte legata alla negazione di bisogni e tempi personali, alla tendenza a dar valore al progetto politico più che alle singole donne (legata evidentemente al fatto di negare in sé l’essere donna). La dipendenza che si crea in un collettivo rispetto a queste persone non è riducibile alla passività (delega) ma ha una connotazione sessuale (rapporto uomo-donna, sadomasochismo): attribuzione di potere e autorità alle donne che appaiono più repressive della sessualità e del bisogno-dipendenza.
Come si dialettizzano personale e politico? In ogni azione politica anche la più ideologica, sono implicate, più o meno consapevolmente, le storie personali. Ciò che contraddistingue la nostra pratica è di aver posto l’analisi e la modificazione della sessualità come assunto centrale e imprescindibile dell’agire politico. Il rinascere continuo dell’ideologia può significare che non abbiamo analizzato abbastanza l’interiorizzazione della violenza.
Potere e linguaggio analitico: L. fa notare che la pratica dell’inconscio, se da una parte ha permesso di affrontare la sessualità nei suoi risvolti profondi, dall’altro ha prodotto: conformità di linguaggio, espropriazione di ogni altra competenza, astrattezza psicologica, esaltazione delle attribuzioni immaginane, sia pure fondate su di una disparità reale (rispetto a chi ha fatto esperienza analitica): donne pensate come capaci di “vedere dietro le parole ” (analiste), altre che si sentono ” guardate attraverso “, osservate al di là della loro percezione cosciente.
Rapporti personali e momento collettivo
Siamo tutte d’accordo che è una contraddizione lo scarto che c’è tra le difficoltà che si incontrano nei rapporti personali tra donne (diffidenza, aggressività, dipendenza) e l’impressione di unita-amalgama affettivo che tende a dare il collettivo.
Amalgama – uniformità – normatività – ripetitività – ideologia.
La saldatura affettiva nel collettivo non è solo immaginaria, ideologica, fuorviante; impedisce l’analisi e il confronto della diversità e quindi la possibilità di esprimere giudizi e decisionalità politica. D. fa l’ipotesi che sia così difficile analizzare la diversità perché associata all’idea dell’abbandono – separazione – aggressività.
L’aver dato tanto spazio alle dinamiche affettive – dice G. – ha sviluppato una maggiore dipendenza tra di noi.
Il riconoscimento non viene solo da una affettività generica, ma anche dalla possibilità di vedere le capacità delle singole donne in un fare concreto insieme.
Per D. l’esaltazione dell’unità affettiva dipende dalle difficoltà inerenti all’esperienza di rapporti sessuali tra donne – sessualità e aggressività/violenza in noi sono così fuse per cui si può pensare la modificazione come molto lenta; perciò esasperiamo il bisogno di accettazione generica.
Ciò sembra confermato dal fatto che, anche nei rapporti più personali, sessuali si tende a cancellare la diversità: si cerca somiglianza, specularità nell’altra donna; difficilmente si riesce a vedere l’altra nella sua singolarità.
Si sottolinea il rischio di cadere in una generalizzazione ideologica dell'”essere donna “. È già capitato storicamente che, per fare prendere coscienza di una forma specifica di sfruttamento si sia dovuto ritagliare nella complessa storia del singolo una identità sociale, la classe.
C’è il rischio che anche le donne nella ricerca di una identità sessuale e politica producano un’immagine collettiva di sé astratta e ideologica.
La tendenza a creare un’unità normativa e ideologica si può riscontrare :
– nella trasformazione della pratica dell’inconscio in pratica analitica tradizionale;
– nel conformismo linguistico: uso di termini riconosciuti dal gruppo;
– nell’incapacità di avere interesse ed amore per una donna presa nella sua singolarità – necessità di individualizzare i rapporti senza sottrarsi al progetto collettivo;
– nell’avere innalzato la nostra miseria come bandiera, nell’aver fatto del trionfalismo sui sintomi storici della violenza subita (disinteresse politico, passività, povertà creativa, atomizzazione).
Piccolo gruppo – Collettivo
Si fa notare la diversità di atteggiamento e di valutazione politica rispetto al collettivo.
G. e L. hanno privilegiato fin dall’inizio il momento collettivo subordinando ad esso il lavoro dei piccoli gruppi.
Per L. il gruppo ristretto permetterebbe di approfondire i temi che interessano. Il collettivo è, attualmente, più simile ad una assemblea e costringe a rapporti stereotipati. P. sostiene, al contrario, che nel collettivo i livelli di coscienza diversi e la disparità di conoscenza, si sopportano meglio o forse il collettivo permette di più l’evasione, la deresponsabilizzazione.
– Nel collettivo la diversità è grande e non è esplicita. I silenzi e le parole hanno un significato diverso per ognuna. L’intenzione conoscitiva è maggiore; lo spazio per allargare la coscienza collettiva può far sentire di più lo scarto rispetto alla
modificazione personale.
– necessità di non perdere di vista a) che il lavoro del collettivo Cherubini ha permesso di arrivare alla casa delle donne;
b) che sarebbe una contraddizione abbandonare il collettivo in un momento di allargamento e di diversificazione delle pratiche;
– nella politica tradizionale i dislivelli di coscienza si risolvono con la militanza, l’indottrinamento e l’adesione ai tempi oggettivi. Per noi non c’è che esplicitare la diversità, confrontandola e prendendo posizione;
– tendenza a enfatizzare i tempi soggettivi, a indebolire la tensione verso un progetto politico collettivo corrispondente ad una condizione storica delle donne;
– perché il collettivo resta un luogo ideologico e vuoto? La difficoltà non sta nell’esplicitare le diverse iniziative ma nel rendersi conto che ciò comporta la possibilità di prendere posizione, di esprimere un giudizio. La conflittualità politica si teme che minacci la solidarietà tra donne.
– sull’uso di Col di Lana : uscire dalla contrapposizione astratta tra chi sembra volerne fare solo un luogo di riunioni e chi invece un luogo di vita alternativa. Col di Lana deve rappresentare la modificazione intervenuta nei rapporti tra donne che investa sempre più il quotidiano e il privato senza pretendere di diventare una struttura alternativa di sopravvivenza. Si ripro-pone qui un tema più generale: deve o no il movimento darsi il compito di rispondere ai bisogni primari delle donne?
-Non si può pensare neppure di portare dentro tutte le cose che sono nate dalla pratica di questi anni. Privilegiare iniziative che raccolgano la diversità e la elaborino.
Che modificazioni ha portato il piccolo gruppo?
La comunicazione principale delle nostre diversità è avvenuta nel lavorare insieme più ancora che nei contenuti: M. fa notare infatti che facendo insieme le riunioni ha sperimentato un diverso stile di lavoro: maggiore attenzione reciproca, maggiore approfondimento dei problemi, ecc. Nel suo collettivo le scadenze esterne generano ansia e scarsa capacità di ascolto. Rimane la difficoltà di trasferire queste nuove acquisizioni nel collettivo di provenienza.
Riemerge la diversità tra
– chi, avendo sperimentato qui concretamente una pratica diversa, vuole continuare il gruppo, magari allargandolo;
– e chi intende questo lavoro come prevalentemente finalizzato alla rprogettazione della pratica e del collettivo. Nel caso
precedente il rischio è di considerare il collettivo un semplice prolungamento di questo gruppo, cioè inevitabilmente un’assemblea/coordinamento.
Il gruppo ha vissuto comunque di entrambe queste esigenze e si pensa che il collettivo debba tenere conto di entrambe.
Angela, Anna, Daniela, Donata, Giordana, Lea, Lele, Livia, Luciana, Maria, Marilde, Pinuccia, Susy
APPUNTI DEL GRUPPO NUMERO 4
– Nel fare Col di Lana e la Libreria delle donne c’era già una messa in discussione della nostra pratica analitica: abbiamo creato, infatti, situazioni nelle quali i rapporti fra donne potessero essere non soltanto parlati o solo vissuti, ma situazioni di comunicazione mista: scambio di parole, cose, lavoro, sessualità.
Se la Libreria e Col di Lana non sono riconducibili a un gruppo in quanto molte più donne vi si riconoscono, permettono l’uscita dalla paralisi verbale o dalla ripetizione del vissuto, possono essere luoghi di reale modificazione.
– Il fare la libreria come lavoro produttivo fra donne non garantisce di per sé un rapporto con le donne che entrano, estranee a questo fare.
– Diciamo che Col di Lana e Mancinelli hanno modificato la pratica politica ma io ho un calo di tensione politica verso le altre donne; vado alla casa solo quando ci sono le mie amiche (al di fuori delle riunioni), ci lavoro quando ne ho voglia, le nuove mi infastidiscono, la loro storia non mi interessa. Allora come si tiene in piedi un collettivo? È come se dando libero sfogo al desiderio individuale sparisse la dimensione collettiva.
Si è subito aperta una dialettica: Col di Lana come luogo di lotta delle donne o come luogo alternativo?
– Vorrei capire la differenza tra il movimento lesbico e il movimento di lotta delle donne: tra di noi c’è il desiderio ma anche il non desiderio di stare tra donne, per il modo in cui si è strutturato il nostro desiderio, in rapporto con la sessualità maschile ecc.
– Perché nonostante la modificazione e l’aggiustamento personale, si sente la necessità della dimensione politica di lotta appunto?
– È possibile un progetto politico che raccolga e sintetizzi le esigenze di liberazione di tutte le donne?
La mia esperienza è stata quella di uscire dalla emarginazione da tutta la realtà attraverso l’autocoscienza e la pratica fra donne di questi anni. Questo processo di emancipazione dai livelli più profondi di disagio e alienazione nei confronti della realtà ha prodotto un movimento di modificazione per la persona.
Per altre processi diversi (da una realtà fortemente emancipata, di competizione con l’uomo a un abbandono di questa competizione…), hanno portato a modificazioni anche qui personali. Questi diversi movimenti nelle persone nei confronti della realtà hanno anche prodotto l’apertura della contraddizione con l’uomo, non più solo come separazione, ma come conflitto, che ha dentro spunti positivi di lotta. Ma allora, se nei confronti della contraddizione uomo/donna, ciascuna parte da una sua storia precisa non identificabile con quella di nessun’altra, e da lì muove per riappropriarsi della realtà politica di sé, la ” politica ” si esaurisce in questo diventare da oggetti, soggetti della realtà o c’è qualche cosa d’altro?
Nei rapporti fra donne come rientra e si rimodifica ciò che è stato modificato a livello personale nella realtà dei rapporti con l’uomo e la società?
Se, ad esempio, uscire dalla emarginazione-esclusione significa acquisire modalità di competizione, questa modalità come è vissuta: in tutta la sua contraddizione di attività-sopraffazione o è presa in blocco, così come essa è proposta da questa società?
E al contrario, quando si abbandona la competizione nel mondo dell’uomo cosa avviene di questa nei rapporti fra donne?
Sta qui forse la contraddizione fra modificazione privata e modificazione politica collettiva? Movimento di persone o movimento di lotta delle donne?
– La modificazione personale non sarebbe percepita, in quanto è lenta e parziale senza la dimensione collettiva.
– L’esistere del collettivo fa parte della modificazione.
– La violenza sulle donne è rimasta intatta, non riesco ad isolarmi nella mia soggettività, vedo la prostituzione, le casalinghe ecc., so che può capitarmi di essere violentata o offesa, per questo voglio modificare la società a partire dalla mia relativa e parziale autonomia. Comunque si avverte uno scarto tra modificazione personale e lotta delle donne; da questo scarto nasce il bisogno del collettivo.
– Però il Collettivo può essere solo un luogo ideologico, simbolico dell’essere insieme delle donne, della loro unità, serve a capire a che punto è il movimento; le varie pratiche sono fuori.
– La fantasia del collettivo come unico, solidaristico, impedisce a molte di parlare, di prendere posizione; la conflittualità impedirebbe di essere nutrite simbolicamente.
– La passività rispetto al collettivo come resistenza a entrare nel gioco delle parlanti come ruolo.
Attesa dall’esterno di una distruzione reciproca dei ruoli. Sui loro cadaveri sorgeranno esistenze attive in rapporto paritario fra loro. Il gioco può durare all’infinito per questa non partecipazione in quanto nel frattempo questi ruoli non si distruggono a vicenda ma vengono confermati tutti dalla passività.
La soluzione non è dunque il bombardamento del quartier generale ma la rottura di questo incastro. Passività come bisogno del Collettivo in quanto luogo simbolico di nutrimento per la propria modificazione.
Di volta in volta le molte sperimentano e vivono le ipotesi fatte da chi simbolicamente nutre il collettivo (teoriche, tali ipotesi, per chi le elabora in base al proprio momento storico reale, ideologiche per chi passivamente le accoglie e le esperimenta impiantandole sul proprio momento storico non verificato).
Se il collettivo diventasse reale costringerebbe all’autonomia e alla reciprocità (livello reale e diverso di modificazione).
Nel Collettivo immaginario c’è chi nutre e chi è nutrita per modificarsi; nella realtà nessuna nutre e nessuna si modifica; non esiste quindi, se non ideologicamente, il desiderio di modificazione dei rapporti fra donne e di tutta la realtà. Da qui una situazione di paralisi.
La passività ha dentro come due tipi di richiesta:
1) garanzia del non ritorno alla dipendenza dall’uomo offerta dal nutrimento immaginario del Collettivo.
2) nutrimento affettivo attraverso le donne che permette un ritorno al territorio dell’uomo (reale o anche solo immaginario
come indipendenti.
– Il collettivo me lo devono fare, Col di Lana anche, io non espongo lì i miei desideri perché non c’è risposta.
– Nessuno te lo fa più, la crisi è venuta perché non c’è più alimento (il rapporto madre-figlia non regge più, se ha mai retto…), desidero ora trovare anche una dimensione dove non ci sia la mediazione dei rapporti affettivi.
– L’unico modo per uscire dall’affettività è che emergano altri bisogni, desideri autonomi; non se ne esce dicendo: rifiuto l’affettività.
– Avere affrontato la sessualità ha dato origine a nuovi bisogni e desideri, persino il problema del lavoro diventa diverso, più autonomo dall’analisi marxista (non così per la maternità perché lì il desiderio della donna ha potuto esprimersi anche se in forme contraddittorie); ma come affrontare questo nuovo?
Nel Collettivo non si accetta la diversità, si personalizza, c’è costrizione a stare unite, come nelle famiglie ci si parla sopra le righe.
– Ci sono troppi aspetti negati tra di noi : cultura, classe, lavoro; quanto pesano questi ambiti personali nei rapporti tra di noi? Se non se ne parla nel Collettivo non ci sarà modificazione e continueranno a condizionarci le storie diverse.
– Da quando ho vissuto i rapporti con le donne in modo più reale (sessualità ecc.) c’è stato uno spostamento di interesse verso le donne; per altre cose, come il lavoro, continuavo a fare riferimento all’uomo; adesso chiedo alle donne di interessarsi anche di questo mio problema, non per esigenza ” politica ” ma come bisogno, se no sento ripetitivi anche i rapporti sessuali affettivi, che non mi bastano più; prima sembrava una grande conquista, adesso no.
Ma non per parlarne una volta e lasciarli cadere. Capire, prendere posizione, vedere i nessi con la sessualità. Chi l’ha detto che nel lavoro non c’è il sessismo? Da tutta la pratica fra donne inoltre, non mi è dato di elaborare nessuno strumento politico per leggere e modificare quella realtà, per entrare in rapporto politico con le. donne con cui lavoro e magari lotto.
– Non saremo noi donne, oggetto di scambio tra gli uomini e riproduttrici della specie, a dire che sessualità ed economia sono separate.
– Noi abbiamo messo al centro della nostra pratica l’analisi della sessualità nei rapporti fra donne (in realtà di questi rapporti non si sa nulla ad eccezione di descrizioni generiche, dipendenza, ruoli ecc., con qualche allusione a qualcosa di ineffabile e innominabile), ma ciò che più profondamente segna la sessualità, il sado-masochismo, – continuamente riconfermato dalla struttura capitalista – è rimasto fuori.
Ci può essere piacere nella sottomissione all’uomo e anche alla donna. Questo, tra sessualità e dominio è un altro nesso da affrontare, passandoci attraverso.
– Anche quelle fra di noi che hanno rapporti più stabili mi sembrano ripetitive, la modificazione sembra ridursi alla sessualità nel senso che fanno all’amore fra donne, la modificazione collettiva si riduce a quella solidaristica; è assurdo pensare che i rapporti diventino concreti solo se sessuali, mentre con tutte le altre donne, nel Collettivo, ad esempio, restano astratti.
– La risposta o perlomeno l’attenzione ai bisogni nuovi quale può essere? Ghetto o scardinamento di quello che c’è intorno e anche dentro di noi? L’abbiamo fatto con la famiglia, perché no con il lavoro o la maternità.
– Per il fatto che molte di noi non si sono sposate o si sono separate non è che abbiamo distrutto la famiglia. Abbiamo detto che la riproponiamo continuamente nei rapporti tra di noi…
– Se tu dici che vuoi come progetto politico sovvertire la famiglia e l’economia, come puoi accontentarti del Collettivo simbolico? È veramente un bisogno reale? Perché se così fosse avresti bisogno di un Collettivo reale.
– In effetti risulta astratto il desiderio di sovvertire per me.
– II Collettivo non può essere il luogo in cui si confrontano all’infinito le diverse pratiche politiche (Col di Lana un’accozzaglia delle politiche più diverse) ma un insieme di donne che si riconoscono in un progetto comune. Gli anni passati il Collettivo di via Cherubini, con tutti i limiti aveva una pratica che privilegiava l’analisi della sessualità, dei rapporti fra donne; a partire da quelle cose voglio una rifondazione, un ampliamento, ma non un’assemblea che fa il punto della situazione mentre il lavoro politico produttivo si svolge nei piccoli gruppi.
– C’è un problema di metodo: come analizziamo le contraddizioni tra di noi, le diverse motivazioni a stare nel Collettivo, a volere Col di Lana o Mancinelli, come prendiamo posizione?
– Per prima cosa per noi nuove è importante che i problemi siano nominati, esplicitati.
– Esempio: mercoledì una ha fatto un intervento in cui diceva che non sentiva la necessità del Collettivo, il lavoro che la interessava – analitico – era fatto meglio nel piccolo gruppo, è stato interpretato come desiderio di provocazione. Può darsi che fosse vero ma veniva scavalcato il problema che poneva, che interessava tutte: il rapporto con il Collettivo. Ogni discorso viene rimandato all’interpretazione del discorso. Il gioco dell’interpretazione favorisce l’oscurità; attraverso l’interpretazione la diversità si attenua.
– Il Collettivo tende a negare la differenza e quindi ti nega anche la possibilità di modificazione reale perché ti toglie gli elementi di confronto; l’interpretazione rimanda tutto ai problemi interpersonali: psicologia e luogo ideologico.
– Anche nell’analisi personale mi faceva incazzare l’interpretazione psicoanalitica delle scelte politiche che ponevo, però, in quel contesto era accettabile perché, avvenendo attraverso l’analisi del transfert metteva in discussione solo l’aspetto nevrotico, infantile delle scelte stesse.
– È chiaro, nell’analisi c’è attenzione alla storia, conoscenza del profondo, ma nessuna attenzione alla storia della realtà delle donne, alla loro liberazione collettiva.
– Nell’intervento di Donatella c’erano due bisogni: quello politico e quello di relazione interpersonale (cioè i due livelli che ci sono nel nostro Collettivo, di cui alcune privilegiano il primo, altre il secondo).
– È giusto criticare le componenti nevrotiche delle scelte politiche: sono i due livelli ineliminabili. La domanda è: come la nevrosi può stare dentro il movimento senza ridursi a gruppo analitico, quasi terapeutico?
– Il che poi è stato impossibile; i sintomi, le nevrosi, ecc. non sono stati affrontati, nel Collettivo c’è intenzionalità, reciprocità ecc., figurati che analisi; tra l’altro gli strumenti minimi di questa pratica non sono diventati collettivi.
– Io nell’interpretazione sento sempre la domanda d’analisi: fate a me quello che io faccio a voi. Rimane un problema.
Nella riunione della domenica sulla procreazione c’è stato un accostamento di vissuti paralleli; non si entrava, in relazione, è il solito problema di tenere i due livelli. Quando una pone una questione si può anche andare oltre o mettersi in gioco, ma, a partire dal problema, saldarsi in qualche modo con la sua soggettività e con il problema che pone.
– Quando si sentono dieci vissuti tutto diventa generico, confuso; è necessaria un’ipotesi teorica; tutta la teoria che avevamo si è esaurita.
– Non ci sono rapporti reali tra noi: il simbolo si fa su qualche cosa di materiale.
– La teoria ci aiuterebbe a far sì che ci sia più materialità.
I rapporti tra donne sono limitati perché idealizzati; l’idealizzazione paralizza sia l’elaborazione teorica che la materialità dei rapporti.
Abbiamo paura della conflittualità, di prendere posizione sulle cose che non ci vanno delle altre donne, su quello che succede in Col di Lana.
– La sessualità tra donne non è esplosa in Mancinelli ma è stata assimilata ideologicamente, è entrata in gioco censurata (rapporti affettivi). Vorrei che si mettessero in discussione i vissuti modificativi della sessualità, anche con quelle che magari non hanno vissuto i rapporti sessuali fra donne; questo infatti permetterebbe circolazione e comunicazione della diversità dei rapporti e delle pratiche.
Mi ricordo una riunione del Collettivo in cui si parlava del sado-masochismo, che mi era piaciuta molto. Se invece ci limitiamo a recuperare dei temi (aborto, maternità, ecc.) questa circolarità si riduce a vissuti accostati o a discussioni ideologiche.
– Sulla contraddizione sessualità/non sessualità fra donne vorrei che venisse rifondato il progetto e il lavoro politico.
– Vorrei che si parlasse di rifondazione, e non di svolta. Porre attenzione a ciò che di noi è meno conosciuto: la sessualità, tenendo naturalmente conto di quanto è intrecciato ad altre contraddizioni, di quanto è prodotto di altre strutture.
postilla 1. L’obiezione della donna muta
– Ho sentito un senso di soffocamento quando si parlava (io stessa avevo fatto di tutto perché si arrivasse a questo discorso) del Collettivo come luogo di confronto fra pratiche politiche diverse, desideri diversi, ecc. ed insieme irritazione per alcuni interventi demagogici in difesa delle donne spoliticizzate. Fisicamente mi sono allontanata dal cerchio di quelle che stavano attente alla discussione. Non era mai successo. Ho cercato di capire. L’attenzione, direi la tensione politica, al Collettivo, al suo funzionamento, aveva con violenza negato la parte muta di me, quella che non può e non vuole parlare e che per questo non accetta d’essere descritta, illustrata, difesa da nessuno. Ne dal Collettivo ne dagli analisti ne da quella parte di me che parla.
È andata e va così: ho sempre fatto attività politica e ci sono riuscita bene ma in quasi tutte le situazioni collettive mi mancava la parola, letteralmente; ho chiesto l’analisi perché iniziando a fare l’avvocato mi ero ammutolita davanti ad un giudice al quale dovevo chiedere un semplice rinvio. Ho deciso di finire l’analisi, durata sette anni, dopo un lungo silenzio, l’avevo chiesta per riuscire a parlare, la chiudevo con il desiderio di non parlare. Quasi un fallimento.
II ritorno del rimosso minaccia ogni mio progetto di lavoro, di ricerca, di politica. Minaccia, o è la cosa realmente politica di me, cui dare sollievo, spazio? Una volta l’ ho fatto, quando ho lasciato il partito e mi sono messa in un gruppo di donne, prima e durante il ’68, gruppo ch’era una cosa marginale, piccola, rispetto a quel grande movimento. Il mutismo metteva in scacco, negava quella parte di me che desiderava fare politica, ma affermava qualcosa di nuovo.
C’è stato un cambiamento, ho preso la parola, però in questi giorni ho capito che la parte affermativa di me stava occupando di nuovo tutto lo spazio.
Mi sono convinta che la donna muta è l’obiezione più feconda alla nostra politica.
Il ” non politico ” scava gallerie che non dobbiamo riempire di terra.
– Mi sembra che anche Alba dicesse che la parte emancipata di lei soffocava l’altra, meno conosciuta, più sofferente, che preme per la liberazione.
– A me, per esempio, delle donne che hanno il problema di abortire non m’importa niente, e questo costituisce un disagio personale ed un problema politico. Non comprendiamo la diversità delle altre non dando spazio al nostro diverso.
Negazione e non superamento.
postilla 2. Legge = separazione = legge
“II personale è politico” ha funzionato finché il personale voleva dire : oppressione, privatizzazione, solitudine, ecc. Adesso ci sono stati dei cambiamenti prodotti da quella iniziale presa dì coscienza e ci accorgiamo che il nostro personale, migliorato,
non è più immediatamente politico. Infatti parliamo di mettere in rapporto le modificazioni personali con la dimensione politica.
A causa di questa disarticolazione il cosiddetto politico ridiventa astratto. E da qui deriva, almeno in parte, la difficoltà che troviamo a definire un progetto politico per Col di Lana.
La separazione tra personale e politico, pubblico e privato, è imposta dalla forza della legge (in senso proprio dal diritto) e produce legge.
Infatti una parte dei problemi che vengono fuori in Col di Lana, come affitti, manifesti, chiave, nascono dalla necessità di regolamentare.
Per noi donne la separazione tra personale e politico è pericolosa perché ci porta a disimplicarci dalla sessualità, dai rapporti stabiliti tra donne (rapporti che sappiamo stabilirsi dentro e fuori il Collettivo, e che giustamente non conoscono luoghi privilegiati). Secondo noi questa disimplicazione ha come esito una cosa che conosciamo bene, la perdita della sessualità.
In questa situazione, volendo comunque fare politica, rischiamo di metterci sulla strada del gradualismo: finora ci siamo occupate della sessualità e dei rapporti tra donne, ora affrontiamo altri temi (lavoro, istituzioni ecc.) e confrontiamo le pratiche (medicina, libreria, ecc.).
La mancanza di strumenti – finita l’autocoscienza, sospeso il tentativo analitico per tutte le ragioni che abbiamo detto nel documento – rinforza la tendenza al gradualismo. Noi pensiamo che gli ” altri ” temi hanno ragione di entrare nella nostra pratica politica, ma senza gradualismo, bensì legati direttamente alla sessualità ed ai rapporti tra donne, che restano al centro della nostra politica. Esempio: una volta la discussione sulla maternità non è caduta nella sociologia o nella rievocazione biografica proprio perché l’abbiamo legata a quello che oggi avviene nel movimento delle donne.
Bibi, Luisa A.., Donatella, Lia, Giovanna, Franca S., Rita, Alba, Grazia, Cristiana, Marcela, Margherita, Piera
PROPOSTA DI UN ” CENTRO DI MEDICINA DELLE DONNE” MILANO
14 novembre 1976
Per noi il centro di medicina nasce da una modificazione dell’ipotesi politica su cui sorse, tre anni fa, il consultorio della Bovisa.
Ciò significa che il progetto iniziale ha subito, proprio nel corso e grazie a questa esperienza, numerose trasformazioni, fino a dar vita a un’ipotesi politica differente, più ampia e articolata, che consiste nella costruzione della medicina della donna.
Finora il nostro lavoro politico si è focalizzato sulla comprensione della nostra condizione di donne, attraverso lo strumento dell’autocoscienza che, nel campo della medicina, ha gettato luce sulla espropriazione che ognuna di noi vive rispetto al suo corpo, consegnato a una società che se ne è appropriata sia psicologicamente che sessualmente, in nome di quell’unico destino, definito naturale, che è la funzione riproduttiva della donna.
Questa consegna del nostro corpo all’uomo e alla sua società è il dato emergente da tutte le analisi compiute dal movimento, sia rispetto agli anticoncezionali che al rapporto coi ginecologi, con le istituzioni ospedaliere, ecc. Da questa acquisizione fondamentale ora ci sentiamo in grado di muoverci per riappropriarci della medicina, della nostra salute e, in ultima analisi, del nostro corpo. Perché un Centro di Medicina delle donne?
L’autocoscienza, l’emergere del negativo della condizione femminile, hanno contribuito moltissimo alla nostra trasformazione.
Oggi sentiamo l’esigenza di affermare dei nostri contenuti in positivo, per continuare la strada della nostra modificazione e per contribuire in questo modo alla trasformazione delle nostre condizioni materiali di esistenza. Inoltre, è da tenere presente che il quadro politico generale si è mosso rispetto alla tematica dei consultori. Sono state fatte due leggi (una nazionale del luglio 1975 ed una regionale del luglio di quest’anno) per l’istituzione di consultori, e ciò sta a significare, pur con tutte le caratteristiche di arretratezza del capitalismo italiano, che il sistema si è fatto carico, proprio per anticipare l’esplosione di contraddizioni altrimenti non facilmente arginabili, di alcune tensioni che il movimento delle donne ha introdotto, anche se solo a livello culturale, nella società.
È allora evidente che le ipotesi di consultori autogestiti, che intendevano porsi come servizio sociale, vengono di fatto scavalcate dalla creazione di questi consultori, rispetto ai quali va fatta la massima chiarezza sui nostri bisogni e sulle nostre richieste.
Abbiamo capito, in questi anni, che anche un confronto corretto con le istituzioni (necessità che molte di noi iniziano a sentire in termini sempre più pressanti) può nascere solo se noi abbiamo dei contenuti nostri, la cui elaborazione, il cui approfondimento non può sorgere altrimenti che da una pratica autonoma, separata. Ancora una volta quindi riconosciamo nell’autonomia e nella separatezza le condizioni necessario per una crescita politica nostra e di tutto il movimento delle donne. Non vogliamo che questa medicina, maschile, diventi patrimonio di tutte le donne, ma che tutte le donne contribuiscano all’elaborazione di una nuova medicina, ” dalla parte della donna “.
Siamo infatti di fronte alla ” medicalizzazione ” di ogni atto della nostra vita: dalla enorme divulgazione della medicina in dispense settimanali, alle innumerevoli rubriche sui giornali femminili, dalla pubblicizzazione dei tarmaci fino alla stessa
operazione istituzionale dei consultori regionali: tutto ciò contribuisce a creare l’illusione di avere a disposizione gli strumenti per intervenire sul proprio corpo.
Sappiamo bene invece quanto ciò non sia vero, ma corrisponda a un concetto industriale e consumistico della salute. L’avere a disposizione 70 tipi diversi di contraccettivi non contribuisce di certo alla riappropriazione del nostro corpo, ma ci relega ancora e soltanto nel ruolo passivo di consumatrici.
Ciò che invece vogliamo creare come donne è una nostra dimensione di salute, di cui noi siamo i principali soggetti. Questo Centro vuole appunto organizzare, socializzare e raccogliere le esperienze che già ci sono rispetto a questo tipo di problematica, ma non solo. Intendiamo muoverci su queste pratiche e problemi :
1) gruppi di autoanalisi sulla sessualità, sulla contraccezione, sui legami tra psiche e malattia. Dalla nostra pratica è emerso in modo lampante la correlazione tra sessualità e contraccezione, proprio perché non si può considerare quest’ultima un problema tecnico. Infatti un conto è reperire un contraccettivo per essere “pronte per l’uso”, un conto è ricercare una modalità diversa di contraccezione che ci vede soggetti nel rapporto sessuale, poli dialettici rispetto alla prevaricazione della sessualità maschile.
Ad esempio tutti possono capire la differenza esistente tra un controllo delle nascite finalizzato all’uso maschile del nostro corpo (vedi pillola), e un controllo delle nascite che si basa sulla conoscenza del nostro corpo, e quindi della nostra fecondità, in grado di determinare ed influenzare anche la sessualità, e che vede l’uomo stesso impegnato a ricercare una sua diversa sessualità.
2) Donne e ricerca scientifica. Recentemente si è posto il problema delle donne impegnate nella ricerca e del loro eventuale ” utilizzo ” a servizio del movimento. Secondo noi nella ricerca scientifica deve esprimersi il nuovo soggetto-donna, assumendosi la gestione in base ai suoi parametri. Infatti la ricerca “scientifica” controllata dagli uomini, non solo è pericolosa in senso medico per il nostro corpo, ma è spesso imprecisa, ingiustificata, incompleta, non risponde ai nostri bisogni e non ce ne fidiamo più.
3) Gruppi di self-help. Sull’esempio americano e conseguentemente alla pratica dell’autocoscienza si sono formati nel movimento numerosi gruppi di self-help. Con il self-help, attraverso la socializzazione di tutto ciò che concerne la vita del nostro corpo, le sue malattie, disturbi, le eventuali cure e terapie, le autovisite collettive, si sta lentamente e tenacemente creando una nuova dimensione di salute, una medicina che parte dalle nostre esigenze, da tutto ciò che la medicina maschile ufficiale ha rimosso, censurato, tagliato fuori.
4) Collegamento con collettivi di donne operanti in strutture ospedaliere e con altre esperienze di donne analoghe alla nostra.
Abbiamo ripetutamente verificato quanto sia importante ai fini della nostra esperienza ed elaborazione il contatto continuo con altri gruppi di donne, femministe e non, che lavorano su temi e problematiche analoghe alle nostre. Per tutte noi è stato fondamentale partecipare a convegni, dibattiti, confronti all’interno del movimento e altrettanto importante è stata l’iniziativa di contattare.collettivi di operatori sanitari, sociali e gruppi di donne (vedi col. di Seveso, ecc.), che lavorano sull’ipotesi della creazione di una medicina della donna. È una ricchezza che non vogliamo perdere e che vorremmo fosse parte integrante della struttura del Centro.
5) Gruppi di espressione corporea. Anche questi gruppi rappresentano un capitolo importante nella costruzione di una nuova medicina, nel segno di una riappropriazione da parte della donna del suo corpo. La conoscenza di sé. delle proprie ‘sensazioni, dei propri ritmi corporei che si realizza attraverso la pratica di varie discipline è senz’altro di aiuto e rappresenta un possibile punto di partenza per le donne che intendono la medicina come uno strumento di conoscenza profonda di sé, e non come momento di cura di un corpo fastidiosamente malato.
Tutto questo ed altro ancora è il Centro di medicina della donna per noi. Un punto di riferimento, collegamento, socializzazione delle diverse pratiche politiche attualmente esistenti nel movimento rispetto a questo problema. Momento di aggregazione autonoma delle donne che intendono portare avanti la ricerca di una medicina che parta dai loro reali bisogni, non convergenza indifferenziata di ogni esigenza, ma progetto politico collettivo, perché anche il problema della salute diventi tassello di quel mosaico più grande che è la liberazione complessiva della donna.
Gruppo femminista per una medicina
delle donne – Milano