La Merlettaia
Gian Piero Bernard ci manda una raccolta di frasi che vengono dal lavoro di quest’anno alla Merlettaia di Foggia sul tema Concepire l’infinito e che hanno accompagnato la mostra di Mail Art sull’infinito.
…la vita quotidiana è un processo, nonostante la sua ripetitività, e proprio perciò non può essere limitata in qualcosa di tutto rappresentabile e determinato. Di finito (Chiara Zamboni).
…il movimento delle donne ha cercato la modificazione del proprio rapporto con il mondo, interrogando la vita nella sua quotidianità del giorno per giorno. Portandone a consapevolezza sentimenti, desideri, il lato inconscio. E scommettendo che nell’interrogazione dell’aspetto più quotidiano della vita ci fosse la potenzialità di una apertura di modificazione del reale soggettiva e impersonale assieme (Chiara Zamboni).
L’impreparazione di chi ama fa nella siepe il buco da cui passa l’infinito, come una volpe (Luisa Muraro)
Parlo di qualcosa che riguarda anche altre, parlo di uno sguardo che oltrepassa le mete e le misure sociali per sporgersi oltre, e far avvenire qualcosa, farla ad-venire qui. Parlo di un desiderare altro senza farne l’oggetto di un’appropriazione ma, al contrario, lasciandosi toccare da esso e arrendendosi così alla soggezione della soggettività. Parlo di una non autosufficienza incolmabile, di un non bastarsi originario e del prezzo che le donne hanno pagato per averlo scelto … (Luisa Muraro).
Esistono pensatori che sono come Sherazade: sono voci che tengono sveglio il mondo, che lo tengono aperto rispetto alle immense domande che lo attraversano in ogni tempo. Ci sono pensatori la cui voce è una colonna del tempo. È già essa una forma di giustizia. Di resistenza contro quella che – parlando di Hieronymus Bosch, Marcos e della Guerra Fredda – Berger chiamava la grande disfatta del mondo. Sono rari e tanto più preziosi, questi pensatori. Ancora di più in un momento in cui è la vita stessa a sembrare così invivibile ed è facile perdere di vista le cose essenziali. Il loro canto è coraggioso senza arroganza. Si leva in alto perché sa stare vicino alle cose in basso. E per questo è la memoria del mondo. È un canto della perdita, perché solo lì può sorgere qualcosa di nuovo. È una canzone che porta nel riso il suo seme. È una mescolanza di durezza e tenerezza, le cui modulazioni ci sono entrambe così essenziali, come l’aria o la luce. È una benedizione.
John Berger appartiene indubbiamente a questa compagnia. Lo dobbiamo anche al suo canto se, malgrado tutto, riusciamo ancora a immaginare di stare in contatto con una realtà che o ci travolge o ci sfugge. È questo pensatore dell’infinito, di un infinito laico, umile, dimesso, ma non senza un suo singolarissimo coraggio, che oggi salutiamo e ringraziamo. Della sua capacità sorprendente di farci vedere come quest’infinito non è altrove, ma qui e ora (Gianluca Solla).
In teoria vi è una perfetta possibilità di felicità: credere all’indistruttibile in noi e non aspirare a raggiungerlo (Franz Kafka).
…tutto il mondo era per Kafka «una falsa credenza» – e di questo si parlava nei suoi scritti: degli enormi, inesauribili, tortuosi sviluppi di quella falsa credenza. Originata da che cosa? Da un fatale equivoco intorno ai due alberi che crescono al centro del paradiso. Gli uomini sono convinti di essere stati cacciati da quel luogo perché hanno mangiato il frutto dell’Albero della Conoscenza del bene e del male. Ma questa è un’illusione. Non era quella la loro colpa. La loro colpa sta nel non aver ancora mangiato dall’Albero della Vita. La cacciata dal paradiso era un pretesto per impedirlo. Noi siamo nel peccato non perché siamo stati cacciati dal paradiso, ma perché quell’espulsione ci ha resi incapaci di compiere un gesto: mangiare dall’Albero della Vita (Roberto Calasso).
Di tanto in tanto si sente, cupo, lo sferragliare di un treno che passa in lontananza: oppure, più vicina, proprio sotto la finestra, la guardia che si schiarisce la voce e per sgranchirsi le gambe fa lentamente qualche passo con i suoi stivaloni. La sabbia stride in modo così disperato, sotto quei passi, che nella notte scura e umida si sente risuonare tutta la desolazione e lo sconforto dell’esistenza.
Me ne sto qui distesa, sola, in silenzio, avvolta in queste molteplici e nere lenzuola dell’oscurità, della noia, della prigione invernale – e intanto il mio cuore pulsa di una gioia interiore incomprensibile e sconosciuta, come se andassi camminando nel sole radioso su un prato fiorito. E nel buio sorrido alla vita, quasi fossi a conoscenza di un qualche segreto incanto in grado di sbugiardare ogni cosa triste e malvagia e volgerla in splendore e felicità. E cerco allora il motivo di tanta gioia, ma non ne trovo alcuno e non posso che sorridere di me. Credo che il segreto altro non sia che la vita stessa; la profonda oscurità della notte è bella e soffice come il velluto, a saperci guardare. E anche nello stridere della sabbia umida sotto i passi lenti e pesanti della guardia risuona un canto di vita piccolo e bello, se solo ci si presta orecchio (Rosa Luxemburg).
«Ci sono sconnessioni tra vita interna ed esterna e questo richiede una serie di piccole, grandi invenzioni per trovare ponti tra queste due sponde» (Chiara Zamboni). Così tra l’esperienza e l’infinito che lì traluce. La lingua con la sua capacità di narrazione e di traduzione dall’uno all’altra è uno di questi ponti (Antonietta Lelario).
Concepire l’infinito?
inconcepibile il finito (Donata Glori).
Questa composizione e ricomposizione continua dell’unità corpo-mente-sentimenti-pensiero, questo sincretismo continuo e dal risultato sempre diverso, in sostanza questa tensione a cercare chi si è, in un certo luogo e in un certo tempo, questa tensione a relazionarsi con sé … sarà qui l’infinito?? Non lo so. Forse, ma se proprio vogliamo cercarlo consiglierei di non andare troppo lontano! (Rosaria Campanella)
Mentre l’Infinito era lì a disagio con se stesso, il Puntino cominciò la sua vita autonoma; prima si scrollò di dosso un po’ di Infinito, poi incuriosito si guardò intorno. Dov’era capitato si domandò, che ci faceva lì? La stessa domanda gliela fece l’Infinito. Il Puntino, con grande disappunto dell’Infinito, non sapeva proprio cosa rispondergli, ma sapere di essere stato chiamato Luce gli diede un’idea improvvisa che si affrettò ad esporre ad un Infinito sempre più insofferente.
“Caro Infinito”, cominciò, “ma non sei tu quello che si arrovella perché non ha nessuno con cui confrontarsi? Dai, soffermati un attimo. Ah già un attimo non significa nulla per te! Insomma, pensaci un po’ e rifletti sul fatto che forse sei stato proprio tu a crearmi. Questo continuo rimuginare, queste tue implosioni hanno prodotto una crepa nel tuo infinito ed ora eccomi qui. Che cosa farò mi domandi? Ancora non lo so, ma sento di essere molto importante per te. Tu mi hai chiamato Luce, il che non mi dispiace perché potrò illuminare il mio stesso cammino, ma per andare dove? Quello che serve a me, ma soprattutto a te, perché tu capisca la tua stessa portata è definire il Quando e il Dove, due cose di cui sei infinitamente carente. Non dispiacerti, quindi, ma io preferisco chiamarmi l’Oggi (Rosa Serra).
Era una cosa – solenne – mi dissi –
Essere – una donna – vestita di bianco –
E indossare – se Dio lo consentiva –
Un irreprensibile mistero –
Una cosa consacrata – deporre una vita
Nel pozzo di porpora –
Senza scandaglio – senza ritorno –
Fino – all’eternità –
Meditai su cosa fosse la beatitudine –
E se l’avrei sentita così vasta –
Se l’avessi raccolta nella mano –
Come nel suo librarsi – visto – tra la nebbia –
E poi – le dimensioni di questa “piccola” vita –
I Sapienti – la chiamano piccola –
Si allargarono – come Orizzonti – nella mia veste –
E risi – piano – “piccola”!
Emily Dickinson n. 271 (scelta da Adele Longo)
C’è una solitudine di spazio,
una solitudine di mare,
una di morte, ma
faranno lega tutte quante
a paragone con quell’eterno punto,
quella polare ritrosia
di un’anima ammessa a se medesima.
Finita infinità.
Emily Dickinson n. 1695 (scelta da Anna Potito)
(www. libreriadelledonne.it, 31 luglio 2017)