di Silvia Motta
Sono tre parole che si rincorrono, talvolta si intrecciano, spesso si sovrappongono quando si parla di donne e di femminismo. Ma dicono cose diverse e sarebbe meglio usare un linguaggio di precisione per non annacquare, deviare o mistificare discorsi e significati.
Parità
Vuol dire fare il confronto tra due elementi o due entità e ritenerle perfettamente sovrapponibili. Direi che è un concetto quantitativo: pari grandezza, pari ampiezza, pari peso, pari valore monetario, ecc. Sarebbe piuttosto improprio dire pari sentimenti, pari emozioni, pari valori spirituali, pari atteggiamenti, pari amore, pari cultura ecc. Semmai si dice «stessi sentimenti, stessi valori, stesso amore, stessa cultura». Cioè qualcosa che assomiglia, ma non identico.
Nell’ambito del femminismo, specie quello che prende la scena attraverso i media (giornali, tv, rete) la parola parità trionfa in un perenne confronto frustrante con gli uomini e il mondo maschile. Si usa in maniera ossessiva la parola parità, si dice che le donne lottano per la parità.
Ma ecco qui la confusione.
Io penso che la grande parte delle donne quando usa il termine parità non allude al voler essere uomo o come un uomo, ma esprime il desiderio che vengano meno i disagi e le ingiustizie di una vita che trova, ancora oggi, tantissimi ostacoli riservati solo alle donne. E qui la cosa tra l’altro si complica perché le discriminazioni, nel mondo occidentale, sono in gran parte sottili. Ad esempio, pagare meno una donna è una disparità vietata dalla legge, ma gli escamotage escogitati per trasformare una retribuzione identica sulla carta ma minore nei fatti sono tanti: le donne spesso “scelgono” per necessità di fare il part-time, possono fare pochi straordinari perché devono tuffarsi a casa dove hanno il secondo lavoro, non godono di quegli speciali benefit che sono legati proprio all’orario pieno o alla possibilità di fare tardi la sera.
In fondo la lotta più cristallina per la parità sta in un “togliere” per fare spazio al nuovo. Togliere le discriminazioni sancite nelle leggi e stampate nella psiche e nei cuori per introdurre nuovi punti di vista.
Non a caso i migliori frutti del movimento femminista degli anni ’70 si sono tradotti in conquiste che toglievano ostacoli e ingiustizie riservate esclusivamente alle donne (negli studi, nelle carriere pubbliche e private, nella gestione della famiglia). Cioè sancivano che gli uomini non possono continuare a comportarsi come avevano fatto per secoli. Così è stato abolito il delitto di onore, il reato di adulterio, lo stupro è diventato un delitto verso la persona non contro la morale, è stato eliminato il pater familias (così ben rappresentato nel film di Cortellesi).
Le nuove leggi che ne sono seguite sono state, in molti casi, il necessario intervento finalizzato ad esplicitare i diritti mancanti che il togliere aveva evidenziato (il divorzio, la non penalizzazione dell’aborto, l’abolizione della patria potestà, la parità di retribuzione, l’istituzione dei consultori ecc.).
Quando invece si propongono nuove leggi, queste possono definirsi innovative e positive per le donne solo se tengono conto del loro punto di vista, quello che per millenni è stato ridotto al silenzio e piegato nella sottomissione. È un esempio luminoso l’istituzione della sanità pubblica, proposta non a caso da una donna, Tina Anselmi, con la legge 23 dicembre 1978, n. 833 che soppresse il sistema mutualistico ed istituì il SSN – Servizio sanitario nazionale entrato in vigore nel 1980.
Non si può dire la stessa cosa di quelle leggi “in aggiungere” (cioè che vorrebbero apportare parità), come è avvenuto ad esempio con le quote rosa, apparentemente destinate a scardinare il soffitto di cristallo – cosa che nei livelli apicali è avvenuta in maniera minima – mentre ai livelli inferiori crea riserve/ghetti e neutralizza l’incidenza della presenza femminile.
Certo a noi donne tocca un compito molto arduo: non affidare alle leggi l’idea della conquista della libertà femminile, ma essere consapevoli che le leggi cambiano in positivo se la nostra presa di coscienza e la nostra determinazione diventano socialmente rilevanti e riescono a stimolare anche la presa di coscienza maschile.
Uguaglianza
È un concetto più ampio della parità. Essere uguali non vuol dire essere identici. Il termine ha in sé “l’altro da sé”, la dimensione sociale, il “noi”. L’uguaglianza si situa nella dimensione politica, nel governo della società, con tutti i suoi componenti umani. E se consideriamo il pianeta, includerei anche i non-umani, seppure continui a sentire una significativa differenza tra me e una pianta o un animale.
L’eguaglianza è un bene prezioso e raro, che non esiste in sé e che non si crea spontaneamente. È un’ispirazione, una guida nel comportamento e nel pensiero, mai raggiunto fino in fondo, ma capace di creare ponti tra entità e situazioni diverse. È la porta di accesso alla libertà.
Libertà
Áncoro il mio pensiero alla riformulazione del concetto operata da Luisa Muraro che quando parla di libertà femminile indica un processo dove si costruisce e dove avanza «il senso libero della differenza sessuale». Che vuol dire: riconoscimento di sé in quanto donna e tensione all’autorealizzazione in una pratica di relazione e di riconoscimento tra donne/con le donne.
Vuol dire liberare pensiero ed emozioni dal riferimento coatto alle leggi, ai riti, ai valori patriarcali che possono produrre – come è avvenuto – competizione emancipatoria, emulazione, imitazione, ma non sono portatori di nuovi significati.
Si parla dunque di una libertà che affronta la complessità della differenza sessuale senza rinchiudersi e/o proteggersi attraverso la moltiplicazione di etichette identitarie.
Che non azzera la differenza sessuale nell’illusione di un neutro che in realtà è maschile.
Che non vende l’anima alla scienza quando questa afferma che tutto ciò che si può fare va fatto: guerre, distruzioni, violazioni dei corpi femminili comprese.
(www.libreriadelledonne.it, 12 febbraio 2024)