di Maria Dell’Anno
Una morte annunciata. Abbiamo letto che quella di Adriana Signorelli era una morte annunciata. Ma se era così chiaramente annunciata, perché nessuno ha fatto nulla per impedirla?
Adriana aveva 59 anni, 2 figli,
un lavoro come operatrice sociosanitaria. E un marito. Un marito che
era già stato condannato e punito più volte per le violenze che
aveva agito all’interno della famiglia nei confronti di Adriana e
dei suoi figli. Ma che, nonostante tutto, lei continuava a sperare
potesse cambiare. Nell’autunno del 2018 era stato nuovamente
arrestato per aver bruciato la porta dell’appartamento di Adriana e
aver tentato di gettarle addosso un misto di candeggina e benzina. La
misura cautelare che la magistratura dispose a suo carico per
impedirgli di commettere ulteriori reati fu il cosiddetto obbligo di
firma presso la polizia giudiziaria. Il 27 agosto Adriana è
costretta a rifugiarsi in bagno per proteggersi dalle sue minacce,
che le urlavano di averlo mandato in carcere con false accuse; riesce
a scappare, denuncia suo marito per l’ennesima volta, come prevede
la nuova normativa definita giornalisticamente “codice rosso”
viene ascoltata in Procura e il consiglio che le viene rivolto è
quello di allontanarsi dalla propria casa. Viene uccisa quattro
giorni dopo, nella sua casa, da suo marito.
Abbiamo letto
alcune frasi davvero disturbanti nella stampa di queste settimane.
Abbiamo letto che Adriana «non aveva mantenuto la promessa fatta e
non si era trasferita a casa di sua figlia». Abbiamo letto che «la
sua disponibilità estrema ad aiutare il marito le è stata purtroppo
fatale». Abbiamo letto, insomma, che ancora una volta la colpa della
morte di Adriana è di Adriana stessa.
No! La colpa di un
omicidio è solo di chi uccide. E chi uccide la propria moglie –
laddove il cuore del problema sta esattamente nell’aggettivo
“propria” – non è un malato o un pazzo, è semplicemente un
uomo che ha imparato molto bene ciò che la società patriarcale in
cui viviamo gli ha insegnato.
E la soluzione del problema non è
pensabile che si possa raggiungere con una legge, o con un codice
rosso bianco o verde, perché, per quanto lo si voglia riformare, il
nostro ordinamento penale – come ogni ordinamento penale
occidentale democratico – è costruito per difendere l’imputato,
non le vittime. E infatti nessuno va a dire a quell’uomo di non
uccidere sua moglie, si dice a sua moglie di provare a proteggersi da
sola.
Ma se anche Adriana fosse andata ad abitare da sua
figlia, è davvero pensabile che il marito non ci sarebbe arrivato?
Magari avrebbe ucciso entrambe. E magari proprio per questo Adriana
non ci è andata, per non correre il rischio che sua figlia rimanesse
nuovamente coinvolta in quella violenza. E se anche Adriana avesse
smesso prima di essere disponibile ad aiutare suo marito nell’erronea
illusione che cambiasse, è pensabile che lui non avrebbe trovato
comunque un’occasione per ucciderla?
Adriana ha denunciato
più volte suo marito. Suo marito è stato punito più volte per le
sue azioni violente. La normativa più recente è stata applicata e
Adriana è stata sentita dal pubblico ministero entro 3 giorni dalla
sua denuncia. E poi? Intuitivamente l’unica misura che avrebbe
davvero impedito la sua uccisione sarebbe stato incarcerare il marito
subito e per sempre, ma questo nessuna legge attuale o futura potrà
prevederlo, proprio per quell’architettura di sistema di cui si
diceva prima. L’ergastolo può arrivare solo quando siamo già
morte. Dobbiamo morire per non correre più il rischio di essere
uccise.
E allora apparentemente non c’è soluzione. Lo
Stato non può fare nulla, e contemporaneamente noi non potremo mai
proteggerci da sole.
Invece la soluzione c’è. È una
soluzione di certo molto più difficile da mettere in pratica
rispetto a votare qualche articolo di legge con cui si inaspriscono
pene e si intasano procure impreparate. È una soluzione che non è
per nulla efficace da un punto di vista di pubblicità elettorale. E
soprattutto non è una soluzione che consente di vedere i suoi
risultati nel breve periodo. Ma è l’unica soluzione possibile:
promuovere, anzi costringere tutti e tutte ad un profondo cambiamento
culturale.
E il cambiamento culturale non può che realizzarsi
con la formazione e l’educazione. E a dirlo è prima di tutto la
Convenzione di Istanbul (che l’Italia ha ratificato), l’atto
internazionale che più di tutti ha adottato un approccio olistico
alla violenza di genere, proprio perché non è pensabile guardarne
un aspetto e dimenticarne gli altri.
Ma uno Stato che in
una legge, autodefinitasi di contrasto alla violenza di genere,
prevede la formazione delle sole forze di polizia in modo parziale
(non dei magistrati, non degli operatori sanitari, non dei giovani,
non della società tutta) e non prevede alcun finanziamento al
riguardo; uno Stato che rimanda il reingresso nelle scuole
dell’educazione civica – che sarebbe un ottimo mezzo per
inculcare nei giovani i principi di parità e di non discriminazione
che vediamo sempre più allontanarsi dal nostro orizzonte quotidiano
–; uno Stato che continua a chiudere i centri antiviolenza invece
di finanziarli; uno Stato il cui linguaggio continua a colpevolizzare
le vittime e a compatire gli assassini; uno Stato il cui linguaggio a
tutti i livelli continua a umiliare le donne; ebbene questo Stato è
davvero interessato a sconfiggere radicalmente la violenza maschile
contro le donne?
(Noidonne.org, venerdì, 13/9/2019)