di Gianna Pomata*
Tra le uscite recenti della collana “Fact Checking” di Laterza – collana che ha l’intento lodevole di confutare pseudofatti e false teorie del nostro tempo – c’è anche il libro di Laura Schettini L’ideologia gender è pericolosa che si pone l’obiettivo di criticare tale tesi: la cosiddetta ideologia gender, ci rassicura l’autrice, non è pericolosa, è solo “un fantasma”. Il gender è una categoria analitica che le studiose femministe hanno elaborato dagli anni ottanta, con validi risultati di ricerca. Il mito dell’ideologia gender invece, sostiene Schettini, sarebbe stato costruito in funzione antifemminista da forze reazionarie, fascistoidi e bigotte – il Vaticano innanzitutto, in sintonia con i movimenti nazionalisti di destra. Dal momento che, come Schettini e l’editore Laterza, credo anch’io nel valore dell’evidenza empirica, sottoporrò a fact-checking questo libro in cui manca, innanzitutto, il riconoscimento del fatto che, oltre alla nozione del gender come categoria di analisi storico-sociale – l’unica che Schettini considera, esaminandola in dettaglio nel cap. 2 – ne esiste oggi un’altra, assai diversa, centrata sul concetto di “identità di genere”. E quando si parla di ideologia gender ci si riferisce comunemente a questa seconda nozione, come viene intesa nelle legislazioni sul “gender self-id” (l’autodeterminazione di genere) e nella cosiddetta “gender affirmative medicine”. Il silenzio di Schettini è sconcertante, perché è proprio questo il concetto di gender che ha assunto un’importanza straordinaria nella politica, come anche nella medicina e nel diritto, del nostro tempo. Manca inoltre nel libro la ricognizione di un altro fatto cruciale: la critica all’ideologia gender non viene solo da destra ma anche da sinistra, da un nuovo femminismo che si chiama appunto “gender-critico”. Ci sono oggi due modi di intendere il gender, profondamente diversi ed anzi, a mio parere, incompatibili. Il gender come categoria di analisi mette a fuoco come il sesso biologico – di cui non si contesta la realtà – venga interpretato in modo variabile a seconda delle culture. In questa prospettiva, il gender è un fatto socioculturale, intersoggettivo. La cosiddetta “identità di genere”, invece, come formulata sin dai principi di Yogyakarta (2006) nel movimento transgender, è qualcosa di puramente e intrinsecamente soggettivo e avulso dal dato biologico. Ecco come la definisce per esempio la principale lobby trans britannica, Stonewall UK: «Il senso innato del proprio gender, maschile, femminile o altro, che può corrispondere o no al sesso attribuito alla nascita». Si noti l’aggettivo “innato”. E si noti “il sesso attribuito alla nascita”, che implica che la determinazione del sesso sia potenzialmente arbitraria. Il sesso, infatti, non è più visto come un fatto osservabile ma come un opinabile “costrutto sociale”.
Siamo di fronte a una definizione del gender che prescinde del tutto dalla realtà biologica dei corpi. È maschio o femmina o altro (secondo un repertorio illimitato di gender possibili) chi si identifica come tale. In netta contraddizione con l’originale nozione culturale del gender, l’identità di genere viene presentata qui come un tratto innato e quindi preesistente rispetto ai condizionamenti sociali. Nasciamo tutti – ci viene detto – con una predefinita identità di genere, che può essere allineata con il sesso biologico (in qual caso la persona è “cisgender”) oppure no (in qual caso la persona è transgender). Questo non allineamento viene visto, contraddittoriamente, in due modi: come una forma di malattia mentale (“disforia di genere”) ma anche come un tratto “normale” della variabilità umana. Su che evidenza empirica si basa tutto questo? Come distinguere fra persone cisgender e transgender? Poiché l’identità di genere è qualcosa di squisitamente soggettivo, pertinente all’interiorità della persona, non c’è altro modo di accertarla che attraverso quanto la persona ci dice. Anche un bambino, anche una persona che soffre di turbe psichiche, anche uno stupratore: se ci dicono che sono trans, lo sono, e dobbiamo credergli. L’arbitrarietà e inverificabilità di questa nozione di gender sono evidenti. Siamo passati dal gender come strumento di analisi storico-sociale a qualcosa che non saprei come altro chiamare che una metafisica del gender. Nel libro di Schettini manca consapevolezza di questo fondamentale slittamento di senso nel modo di pensare il gender. Il libro, di conseguenza, è tutto costruito su un equivoco. Nessuno ha paura del gender come strumento di analisi storica, ma vivissima preoccupazione desta invece la metafisica del gender. Il dissenso da questa metafisica viene tanto da destra che dal femminismo gender-critico, con motivazioni e argomentazioni profondamente diverse. Questo è l’altro fatto centrale che Schettini passa sotto silenzio: c’è nel libro solo un brevissimo cenno dove si ammette che al richiamo della “sirena antigender” (sic!) hanno risposto in questi anni anche alcuni settori del femminismo. Schettini non menziona nulla peraltro di quella che è ormai una ricca letteratura di studi femministi che hanno criticato “gender identity”, “gender self-id” e “gender-affirming medicine”: dal libro della filosofa Kathleen Stock, Material Girls. How Reality Matters for Feminism (2021) a quello della politologa Holly Lawford-Smith, Gender-Critical Feminism (2022), all’antologia Sex and Gender (2024) curata dalla sociologa Alice Sullivan e dalla storica Selina Todd (2023), per citarne solo alcuni (nessuno di questi libri compare nella bibliografia in appendice al libro di Schettini). Questi testi rendono chiaro che le obiezioni del femminismo gender-critico alla metafisica del gender non hanno niente a che fare con un progetto reazionario di restaurazione del “patriarcato”. Al contrario, denunciano le conseguenze regressive che la metafisica del gender ha per le donne. Se qualsiasi uomo, semplicemente col dichiarare un’identità femminile, diventa legalmente donna, le donne perdono il diritto agli spazi separati (negli sport, nelle carceri, nei rifugi antiviolenza, nei bagni pubblici, eccetera) che le salvaguardano, almeno in parte, dai rischi legati alla differenza di forza fisica fra i sessi. Non solo, la metafisica del gender impone a tutti una ridefinizione della realtà. Rifiutarsi di convalidare l’autodefinizione di una persona che si identifica come trans, attraverso, per esempio, il cosiddetto “misgendering” – l’uso dei pronomi corrispondenti al sesso, non all’identità di genere – è stigmatizzato come “transfobico”, un termine di ignominia nella “neolingua” del nostro tempo. In un processo per stupro in Inghilterra, alla vittima è stato richiesto dal giudice di usare pronomi femminili per l’aggressore, identificatosi come trans: di dire quindi “her penis”, “il pene di lei” – l’espressione più orwelliana, più crudelmente assurda del nostro newspeak. Sostenere che donna è un essere umano adulto di sesso femminile, o che le donne non hanno un pene, o che un uomo non può essere una lesbica, sono diventate opinioni denunciabili non solo come “transfobiche” ma come hate speech. La metafisica del gender non comporta solo un grave arretramento dei diritti delle donne ma minaccia quel che è prezioso per tutti: la libertà di parola.
Ma c’è di più e di peggio, ed è quello che, in nome della metafisica del gender, si sta facendo a bambini e adolescenti. Secondo Schettini, una delle immotivate e irrazionali paure associate al “fantasma” dell’ideologia gender è che spingerebbe a «deregolarizzare e promuovere in modo selvaggio le transizioni da un sesso all’altro». Ma questa non è affatto una paura irrazionale: è quel che sta avvenendo sotto i nostri occhi. Proprio in questi giorni, sui media di tutto il mondo, si parla della Cass Review (https://cass.independent-review.uk/), l’indagine del servizio sanitario inglese sulla “gender-affirmative care” praticata sui bambini coi “bloccanti della pubertà” e sugli adolescenti con gli ormoni femminilizzanti o mascolinizzanti. Sulla base dell’esame sistematico della letteratura medica su questo tema, la Cass Review ha concluso che l’evidenza scientifica a sostegno di questi interventi è «estremamente debole». Molto era già stato anticipato da Hanna Barnes nel suo Time To Think: The Inside Story of the Collapse of the Tavistock’s Gender Service for Children (2023) segnalando come bambini e adolescenti vengano sottoposti a interventi rischiosi (come i bloccanti della pubertà) o addirittura irreversibili (come gli ormoni “cross-sex”) senza una base evidenziaria attendibile. Lo studio riscontra inoltre come il modello “gender affirming” comporti una grave distorsione del processo diagnostico (“diagnostic overshadowing”). Nonostante la disforia di genere sia spesso associata, nei minori, a problemi mentali come autismo e turbe della personalità, questi vengono sistematicamente messi in ombra dal fattore gender. La disforia viene vista infatti come segno di un’innata e stabile identità trans, e si presume che i problemi mentali saranno risolti dalla “transizione”. Questo nonostante il fenomeno crescente dei “detransitioners”, che desistono dal trattamento ormonale proprio perché non risolve, e a volte peggiora, il loro disagio. Non si prende in considerazione l’ipotesi che la disforia possa essere dovuta a forme di condizionamento o contagio sociale. Non si prende in considerazione soprattutto il fatto che molti degli adolescenti disforici sono lesbiche e gay e che la loro disforia possa essere legata al persistente stigma dell’omosessualità – un fatto che lesbiche e gay del movimento gender-critico hanno denunciato da tempo. Quel che viene “affermato” nella “gender affirming care” non è scienza ma metafisica, con costi umani inaccettabili.
(*) Giovanna Pomata è professora emerita di storia della medicina presso la Johns Hopkins University
(L’indice dei libri del mese, 3 maggio 2024)