di Debora Attanasio
Quanti di noi sanno che una donna di nome Giuseppina Re si è battuta per la legge che vieta il licenziamento per nozze?
Proviamo a iniziare questa storia leggendo attentamente qualche riga in “legalese”: «Le clausole di qualsiasi genere, contenute nei contratti individuali e collettivi, o in regolamenti, che prevedano comunque la risoluzione del rapporto di lavoro delle lavoratrici in conseguenza del matrimonio sono nulle e si hanno per non apposte. Del pari nulli sono i licenziamenti attuati a causa di matrimonio». Al primo impatto, quanto abbiamo letto sembra un estratto dalla sentenza di qualche assurda vertenza sindacale, intentata da una lavoratrice dopo che uno sconsiderato titolare l’ha licenziata per un motivo ingiustificato, ossia perché si è sposata. Chi mai licenzierebbe una donna solo perché si è sposata? Purtroppo (per allora) e per fortuna (per noi, oggi), un tempo invece era così. Quello riportato sopra è un estratto dalla Gazzetta Ufficiale che nel 1963 pubblicava il testo della legge n. 7 del 9 gennaio 1963 con cui veniva cancellato per sempre (si spera) il diritto del datore di lavoro, anche nella pubblica amministrazione, di licenziare una donna per il semplice motivo di essersi sposata. Si trattava di una facoltà discriminatoria del datore di lavoro di cui a distanza di oltre sessant’anni si è persa memoria, ma che al tempo non faceva indignare nessuno. Non è stata certo l’ultima ingiustizia subita dalle donne sul lavoro, tutte sempre in violazione dell’articolo 3 della Costituzione che dice «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso [etc.]»: proprio nel 2022 il ministero della Difesa, nei bandi di concorso, ha chiesto ancora alle donne il test di gravidanza.
Oggi i sindacati di categoria insorgono, ma prima del 1963 la motivazione del licenziamento per una donna andata a nozze sembrava legittima perché parlava di un ipotetico fine di «proteggere la funzione familiare della donna». In pratica, la si mandava a casa in modo che non trascurasse marito e figli, era un favore non chiesto a lei e alla società. Nella realtà sappiamo che le future gravidanze delle dipendenti sono da sempre uno spauracchio di molti datori di lavoro, e che al tempo sbarazzarsi di una futura mamma era molto più semplice di oggi. Poi è arrivata la legge 7/63 che ha stabilito dei paletti, monitorando il licenziamento e le dimissioni della dipendente nel periodo che va dal giorno della richiesta delle pubblicazioni di matrimonio a un anno dopo la celebrazione. Chi bisogna ringraziare per questa norma? Una deputata che sembra essere stata dimenticata dalla storia. Si chiamava Giuseppina Re, era di Pieve Porto Morone, in provincia di Pavia, e aveva il pallino dei diritti civili sin da quando da bambina il padre le raccontava la storia di Sacco e Vanzetti, i due italiani giustiziati innocenti in America. Durante la guerra Pina Re ha fatto la commessa nei grandi magazzini Duomo e nella drogheria di piazzale Lagosta a Milano, e nel capoluogo lombardo aveva conosciuto e iniziato a collaborare giovanissima con i partigiani, mentre cominciava coraggiosamente a fare attività ante litteram per le questioni femminili, un tema al quale al tempo stentavano a interessarsi persino le donne stesse, per non irritare padri e mariti. Nel 1948, Pina Re è stata una delle prime donne elette al Parlamento italiano, ma diede presto le dimissioni per problemi di salute. Fu rieletta nel 1958, si rimboccò le maniche e spinse alcune delle riforme più importanti della giustizia minorile e del diritto di famiglia di questo Paese. E ovviamente, è stata la prima firmataria della legge contro i licenziamenti delle donne per matrimonio. Anche dopo la fine del suo mandato, Giuseppina Re ha continuato a fare attività per una società migliore: è lei che ha fondato il Sunia, il sindacato degli inquilini, ed è lei ad aver lottato per l’istituzione del Parco Nord a Milano. Morta nel 2007 a 94 anni, è stata una grande politica e oggi è vittima della memoria corta dei nostri tempi, un personaggio di cui le nuove generazioni dovrebbero chiedere un monumento e studiare la biografia, per tenere sempre bene a mente che i diritti di cui godiamo non sono mai caduti dal cielo, e che la loro permanenza non va mai, mai data per scontata.
(marieclaire.it, 15/12/2024)