di Matteo Giordano e Tommaso Sasso
In ricordo di Aldo Tortorella, comunista amico delle donne mancato il 5 febbraio 2025, ripubblichiamo questa bella intervista del 17 aprile 2015, che si incentrava sulle prospettive della sinistra nella crisi della modernità in atto a partire dalla storia della sua vita.
Ci sembra il modo migliore di ricordarlo e di salutarlo.
La redazione del sito
Domanda: Fai parte di una generazione di dirigenti politici, e in particolare di dirigenti comunisti, che sono stati segnati nel profondo dalle convinzioni ideali della Resistenza, nella prima giovinezza. Ti chiederemmo intanto di ripercorrere brevemente cosa hanno significato per te quegli anni e quelli immediatamente successivi alla liberazione.
Risposta: Forse debbo dirti prima come mi sono avvicinato ai comunisti e alla Resistenza. A diciassette anni – avevo “saltato” qualche classe – mi iscrissi alla facoltà di Lettere e Filosofia dell’università di Milano per poter studiare con Antonio Banfi, titolare di Storia della Filosofia e di Estetica. Sapevo che era comunista e io mi consideravo tale. La scoperta dei comunisti era avvenuta attraverso l’interesse per lo studio della filosofia. Il mio primo insegnante al Liceo era un crociano, liberale, antifascista. Era un ottimo insegnante, si prese cura di me, forse anche perché ero abbastanza solo ad amare la sua materia tra gli studenti del liceo scientifico che avevo scelto di frequentare. Erano quasi tutti bravissimi in matematica, sognavano il politecnico, l’edilizia, la meccanica, si appassionavano alle onde radio e alle meraviglie della fisica delle particelle. Ero allo scientifico perché avevo immaginato di fare il biologo: forse ero più saggio da ragazzo.
Ma le passioni non si possono sempre dominare, come si sa. Comunque, il mio primo professore di filosofia morì, e venne un giovane supplente (Mario De Micheli, poi critico e docente universitario di storia dell’arte), che si manifestò dapprima come libero pensatore, lontano dall’idealismo crociano e poi, quando si accorse di me e io entrai in rapporto con lui, si svelò come marxista e comunista. Era un appassionato cultore delle arti figurative: e, come tale, partecipe della consorteria dei giovani pittori e scultori di allora dell’accademia di Brera. Tra quei giovani pittori c’erano alcuni che diventeranno noti (Morlotti, Cassinari, Dova, Peverelli…) ma il più celebre diverrà Dario Fo, però, come si sa, quale autore di teatro. Il maestro cui quei giovani guardavano era Picasso, comunista anche lui. Il quadro di riferimento era Guernica, simbolo della barbarie nazista. Una forte spinta all’indignazione contro l’ingiustizia sociale veniva a me come per altri di quella generazione, dalla lettura dei romanzieri sociali americani della prima metà del secolo: Jack London, Caldwell, Steinbeck, il primo Dos Passos, forniti dal fratello maggiore, letture che facevano seguito ad alcuni dei classici della narrativa ottocentesca russa, presenti in casa.
Uno della compagnia dei giovani di Brera era Raffaellino De Grada (figlio di un pittore importante a quel tempo – a metà, come altri, tra tradizione e avanguardia). Questo giovane – che diverrà un noto critico d’arte – era più grande di me e già in contatto organico con il Partito Comunista, che stava costruendo il Fronte della Gioventù insieme agli altri partiti del CLN. Dal rapporto con lui arrivai a partecipare alla formazione del comitato del Fronte della Gioventù di Milano. Entrai in contatto con Gillo Pontecorvo allora membro del comitato nazionale del Fronte, divenni responsabile degli studenti universitari, e in questa veste venni arrestato nel ’44, di fronte all’Università Cattolica dove andavo per un incontro clandestino, per la delazione di una spia. Finii in carcere, mi ammalai, venni mandato nel reparto carcerario dell’Ospedale Maggiore. E di qui poi evasi grazie a una indicazione del CLN all’organizzazione interna, diretta da un primario, comunista, e da una suora. Il capo del Fronte, Eugenio Curiel – un giovane fisico di valore dell’Università di Padova epurato perché ebreo, antifascista e comunista già prima della guerra, poi assassinato dai fascisti per strada, a Milano, alla vigilia della liberazione – mi mandò a Genova a rifondare l’organizzazione del Fronte della Gioventù dove il gruppo dirigente era stato in parte catturato, in parte disperso. Il Fronte era composto da tutti i partiti del CLN. Tra i fondatori e dirigenti c’erano anche due monaci serviti, David Turoldo e Camillo de Piaz, che saranno emarginati dalla gerarchia ecclesiale per tutta la loro esistenza.
A Genova fu una vita dura, ma facemmo tanto lavoro clandestino di agitazione e propaganda – come si diceva allora. Nella notte del 24 aprile, essendo uno dei pochi studenti universitari rimasti – altri erano stati trucidati o deportati – fui destinato all’Unità. A Genova l’insurrezione anticipò di un giorno, così il nostro fu il primo numero nel nord dell’Unità legale. Da allora, furono quattro le edizioni dell’Unità: a Roma e nel triangolo industriale Genova-Torino-Milano. Il Partito comunista voleva essere il partito della classe operaia: e di fatto lo era anche da un punto di vista sociologico. Soprattutto alla liberazione era un partito di operai e di dirigenti di estrazione operaia. Gli intellettuali erano pochi, gli studenti anche. A parte Togliatti e il vertice della direzione, la maggioranza degli altri era di estrazione operaia, acculturati nelle scuole di partito dentro le carceri o all’estero. Gli intellettuali di professione, alcuni dei quali particolarmente eminenti – come Antonio Banfi o Concetto Marchesi – assumeranno solo successivamente un ruolo di direzione così come gli intellettuali divenuti funzionari del partito.
Ma tu mi chiedi non solo come sia diventato comunista ma cosa pensassi in quanto partecipe della lotta di liberazione. Diversamente dall’ispirazione ufficiale della Resistenza, e dal sentimento dichiarato da altri, non pensavo che la nostra fosse una lotta limitata ai motivi patriottici nazionali, pur sentendoli e sapendoli essenziali per la costituzione di una alleanza così larga (dai comunisti fino ai monarchici) di cui ero ben consapevole: in quanto responsabile del Fronte a Genova avevo cercato di ricostruire i rapporti con i giovani di tutti i partiti antifascisti. Scambiavo, ma forse non ero il solo, il prevalere del sentimento nazionale con il nazionalismo fascista, retorico e insopportabile. Cosicché, per quanto mi riguarda, debbo confessare che pensavo al cambiamento non solo dell’Italia ma del mondo intero. Come vedi, non lesinavo nelle ambizioni. In effetti, le aspirazioni comuniste si presentavano ad un giovane come idealità universalistiche. Sarà poi la politica di Togliatti a far capire anche a me che i comunisti dovevano far propria l’idea di democrazia, considerandola in tutta la sua latitudine, e l’idea di nazione collegandola all’internazionalismo. E Curiel ci aveva insegnato che l’obiettivo era la “democrazia progressiva” (vale a dire una parola d’ordine radicalmente diversa dalla “dittatura del proletariato”). L’obiettivo era quello indicato da Togliatti. Curiel lo aveva particolarmente elaborato. Volevamo una democrazia capace di rendere protagoniste le classi escluse dal potere in una società capitalistica.
Questi convincimenti convivevano con il mito dell’Unione Sovietica come mondo nuovo. Negarlo sarebbe ipocrisia. La incredibile resistenza di Stalingrado (oggi Volgograd) e di Leningrado (tornata Pietroburgo) sembravano la conferma che una società nuova, carica d’ideali, era nata e vinceva. Il socialismo sembrava ormai realtà storicamente avviata in uno dei più grandi paesi del mondo, seppure attraverso tragedie immani. Anche se i processi staliniani contro i dirigenti bolscevichi – la cui notizia era arrivata attutita e poi era stata sommersa dal fragore della guerra – avevano creato dubbi, di cui si parlava. L’ultimo era stato quello contro Bucharin. Prima era stato condannato, con altri, Radek, un dirigente del cui valore intellettuale era giunta eco fino a uno studente come me. Radek sembrava aver scampato la condanna a morte che sterminò gran parte dei massimi dirigenti bolscevichi, ma in carcere fu assassinato alla vigilia della guerra. Ne avevo letto su non so quale pubblicazione che riferiva del processo e dell’esecuzione sommaria e ne chiesi, in clandestinità a Genova, al vecchio compagno che era il mio “contatto” e dirigente di partito. Non sapevo allora chi fosse, naturalmente. Era uno straordinario compagno (Carlo Venegoni) di estrazione operaia e di ascendenza politica, per dirla in breve, bordighista e poi di tipo trotzkista. E mi disse: «Processi tutti falsi. Ma dobbiamo stare con l’URSS». Indimenticabile. E indimenticabile un’altra frase di quelle discussioni al tempo della resistenza sull’Unione Sovietica, ma questa di un compagno intellettuale “ortodosso”: «Non sappiamo se il difetto sia nel sistema o del sistema». Non eravamo ciechi e sordi.
Poi, nel ’48, ci fu il caso Masaryk, ministro degli Esteri socialdemocratico cecoslovacco in un governo a maggioranza comunista. Volò nella notte dalla finestra, si parlò di suicidio, il dubbio di un assassinio fu forte, il clima divenne teso. Ma a monte (nel ’46) c’era stato il discorso di Fulton di Churchill, concordato con Truman, con cui si rompeva l’unità mondiale antifascista e iniziava la guerra fredda. La Cecoslovacchia, secondo gli accordi di Yalta, era nella sfera di influenza dell’Urss, il caso Masaryk fu digerito. Nel ’53, però, ci fu la rivolta degli operai di Berlino: un regime come quello della Germania dell’Est che voleva essere socialista in cui gli operai si rivoltavano. Lo ricordo come uno shock. E poi nel ’56 ci fu l’Ungheria ed io, come dissi a Banfi, con cui mi ero laureato, volevo andarmene dall’apparato del PCI, tornare agli studi. Fui trattenuto, anche per la memoria della Resistenza, per tutti i compagni che non c’erano più. Uno di loro, Walter Fillak, un giovane studente universitario di Genova, impiccato, scrisse ai genitori – è riportato nelle “Lettere dei condannati a morte della Resistenza” – che sapeva di andare a morire e che però il suo sacrificio avrebbe dimostrato la qualità dei comunisti, anche per la conquista della democrazia.
Il ricordo di tutto questo mi fece apparire l’abbandono del Partito – essendone divenuto un dirigente – come un cedimento, anche perché allora lo scontro era frontale. Molti intellettuali uscirono. Col tempo alcuni tra i più eminenti ritornarono: Antonio Giolitti, per esempio, che poi militò nelle file del PSI, ricoprendo responsabilità rilevanti in parlamento e nei primi governi di centro sinistra, e concluse la sua vita politica come parlamentare eletto nelle liste del PCI. Era già vecchio quando accettò la candidatura, e fu quasi una testimonianza che volle dare sull’involuzione craxiana e sull’evoluzione dei comunisti italiani. In questo processo evolutivo del PCI è stato determinante, credo, il contributo della generazione della Resistenza. Questa generazione ha avuto come compito, via via scoperto e assunto, quello di riscattare l’onore del nome comunista, che avevamo sposato da ragazzi – un nome stravolto da tanti tremendi delitti –, e di cercare di dare un senso concreto a quella che si chiamava la “via italiana al socialismo”. Berlinguer si è particolarmente distinto in questo: non solo nel separare le idealità comuniste, come le pensava lui e tanti di noi, dal modello sovietico, cosa che almeno in parte aveva fatto già Togliatti, ma nell’affermare con chiarezza un’altra visione del socialismo, una visione non valida solo per l’Italia.
Il PCI era stato il più tenace difensore della Costituzione repubblicana nello scontro difficile e aspro di tanti anni. La storia italiana è costellata di morti in piazza per le lotte del lavoro e per la difesa della democrazia fino agli anni Cinquanta e, dopo, è segnata dalle tragedie e dai lutti generati dal terrorismo di ogni parte e colore, particolarmente attivo, fino all’assassinio di Moro, ogni volta che il PCI si avvicinava al governo. Da Berlinguer in poi, cioè dall’inizio dei ’70 del secolo scorso, ma in parte anche prima, fu la generazione della Resistenza a guidare il Partito comunista nella ricerca di una via democratica verso una trasformazione sociale. Alcune conquiste ci furono. Molte battaglie furono vinte. Ma se la situazione di oggi è così deteriorata, se la democrazia è sotto assedio vuol dire che complessivamente ciò che fu costruito non era così solido come si pensava. La sconfitta è stata prima di tutto culturale. Le fondamenta stesse hanno in gran parte ceduto.
Domanda: Sei stato uno dei massimi dirigenti del Pci, direttore dell’Unità, responsabile con Longo e il primo Berlinguer delle politiche della cultura e poi coordinatore della segreteria nella ultima parte della stagione berlingueriana. La tua generazione è stata una vera e propria aristocrazia politica, fatta di “politici-intellettuali” e “intellettuali-politici”. Quale era allora la natura del nesso tra politica e cultura? Possiamo dire che il Partito esercitava una vera e propria capacità egemonica nel mondo culturale italiano, dalle arti figurative, alla letteratura, dal cinema, al teatro?
Risposta: Innanzitutto una precisazione. La nozione di egemonia del Pci nel mondo della cultura ha senso se riferita alla condivisione della linea politica del Partito da una parte molto notevole e influente della intellettualità. Fummo a lungo nel clima determinato dal patto costituzionale che riguardava la costruzione di uno stato effettivamente nuovo: penso ad esempio alla definizione del carattere sociale della proprietà (art. 42 Cost.). Inoltre nel dopoguerra il Pci ebbe una funzione determinante nella lotta contro la censura, contro le tendenze oscurantiste, per la libertà della elaborazione culturale in ogni campo. Ma è dubbio che il Pci esercitasse davvero una funzione trainante nell’insieme dei settori della creazione del patrimonio conoscitivo e della espressione artistica.
Fino all’VIII congresso (quello successivo al ’56) la nozione di “cultura” recava con sé un pesante bagaglio ideologicistico. Solo dopo il 1956 il “lavoro culturale” divenne pienamente una attività per politiche culturali innovative nel campo della scuola, dei beni culturali ecc. Inoltre nelle università l’influenza dei cattedratici di estrazione comunista o simpatizzanti della sinistra era molto contrastata da una pesantissima presenza e forza organizzata conservatrice laica e cattolica. Il cattolicesimo pre-conciliare era fortemente intriso di spirito di conservazione. Anche perché dall’altra parte del Muro, nei paesi delle democrazie proletarie, contrariamente alla linea propugnata da Togliatti, lo scontro tra comunisti e Chiesa cattolica, pensiamo a Ungheria e Polonia, era acutissimo. La linea dei comunisti italiani, che aveva portato all’accettazione del Concordato con la Chiesa in Costituzione, appariva quasi un tradimento agli occhi dei partiti comunisti dei paesi socialisti. Oltre che essere invisa ai partiti laici italiani i quali, però, collaborarono poi con la DC, per tanti anni.
Una parte importante dei massimi dirigenti del Partito nel tempo della lotta antifascista e della prima età repubblicana erano uomini dell’Ottocento o dei primi del Novecento. L’evoluzione della cultura creativa, per esempio nel campo delle arti figurative, con l’affermarsi di nuovi modi di guardare il mondo (con l’astrattismo, l’arte concettuale, l’arte povera ecc.) era ostica per loro. Non per sudditanza al realismo socialista: ma per formazione culturale. Togliatti era un “carducciano”. Amendola, pur compiendo la “scelta di vita” comunista, era cresciuto in casa Croce. Ingrao, che rappresentò la sinistra del partito a partire dal ’66, originariamente “pascoliano”, era cresciuto con Montale. La formazione di Togliatti e di quel gruppo dirigente era avvenuta nei primi anni del secolo e quella di Ingrao, Amendola, Alicata ecc. negli anni ’30.
Oltre che nelle arti figurative, nel campo delle lettere ben presto, con il gruppo ’63, la tendenza neorealista (sostenuta anche dalla stampa comunista) fu messa in discussione e sostanzialmente superata. Nel campo delle scienze umane la cultura del gruppo dirigente ebbe un pesante ritardo (essenzialmente per l’influenza dello storicismo crociano, sprezzante verso la sociologia e tutte le sue implicazioni). Fu nel determinante settore del cinema che la nostra influenza divenne molto forte, quasi egemonica: mentre nelle arti figurative il realismo era ancorato a esperienze del passato, nel cinema il neorealismo era del tutto innovativo. Si passava dai film dei cosiddetti “telefoni bianchi”, cioè il cinema costretto dal fascismo a mostrare poca parte o nessuna della condizione delle classi subalterne e dei mali della società, al cinema “neorealista” che aveva l’ambizione di rappresentare la realtà per quello che realmente era e aveva una profonda valenza almeno progressista: Visconti, De Sica e molti dei più giovani autori erano orientati a sinistra e alcuni esplicitamente verso il Pci.
Certo, il rapporto della cultura con la politica era considerato decisivo per il gruppo dirigente comunista che formerà il “partito nuovo” di Togliatti. Era impensabile che si potesse diventare dirigenti senza un rapporto con il sapere e con qualche competenza determinata. La scoperta e l’insegnamento di Gramsci fu in proposito essenziale. Ma la cultura non era importante solo per i comunisti: nel gruppo dirigente democristiano non mancavano certo i docenti universitari, non posso non pensare ad esempio ad Aldo Moro. L’idea stessa della politica era diversa: la diversità stava anche, se non soprattutto, nelle diverse visioni del mondo. C’era una contrapposizione ideologica.
Domanda: Contrapposizione ideologica le cui ragioni e le cui radici affondavano in profondità.
Risposta: Certamente. La parola “ideologia” può significare falsa coscienza, ma anche sistema di valori: si contrapponevano valori come uguaglianza, solidarietà, più vicini alla sinistra storica e al movimento operaio, e il valore della libertà (non certo ignorata da socialisti e comunisti) che era premessa dalle altre forze (libertà di coscienza, di impresa, rivendicata come se l’altra parte non ne avesse contezza). Il grande errore del movimento operaio italiano è stato quello di lasciare, a livello simbolico, che la DC si appropriasse dell’idea di libertà (parola “libertas” incisa sullo scudo crociato) in modo quasi monopolistico e di sembrare, e in parte di essere, paladina del primato assoluto dell’eguaglianza.
Quanto alla centralità assegnata alle radici ideali e culturali dei nostri convincimenti, ricordo che a volte nella direzione del Pci poteva accadere di questionare su questioni schiettamente filosofiche. Il mio maestro, Banfi, aveva una lontana origine kantiana, perché era stato a studiare in Germania all’inizio del ’900, quando fioriva la scuola neokantiana di Marburgo e nello stesso tempo Simmel. Lo stesso maestro di Banfi, Martinetti, era il massimo interprete di Kant della sua generazione. Il fatto che la dialettica hegeliana venisse trasformata nel materialismo dialettico per alcuni di noi era irritante, perché questo si era tradotto fatalmente in una vulgata ridicola e grossolana. Ricordo di una discussione in direzione tra me e Alfredo Reichlin sullo storicismo hegeliano (avversavo la vulgata storicista che nei suoi cascami diventa il “chi vince ha ragione”) e un’altra con Pajetta e Amendola sulla filosofia di Nietzsche. Questi ultimi due compagni venivano dalla stagione dell’antifascismo: Amendola, che non era affatto un socialdemocratico, e Pajetta – saranno i maggiori sostenitori di Togliatti nella generazione di mezzo – avevano aderito al Partito comunista dopo la svolta della VI internazionale, cioè dopo il congresso del “socialfascismo”, la parola d’ordine settaria che portò alla rovina il partito comunista tedesco, la Germania e l’Europa. Per loro Nietzsche era essenzialmente quello che i nazisti e i fascisti avevano eretto a loro nume. Invece, in quel tempo, mentre io dirigevo la sezione culturale, nel dibattito corrente c’era, tra l’altro, una rivalutazione di Nietzsche da sinistra. Mazzino Montinari, comunista, curò con Giorgio Colli la pubblicazione delle opere di Nietzsche e dette una svolta agli studi nietzschiani, ma anche altri tra cui Cacciari (del quale io non condividevo quasi niente), erano orientati, secondo me giustamente, a strappare il pensiero nietzschiano alle grossolanità e anche alle falsità delle interpretazioni nazistiche e a riportare quel pensiero a se stesso. Nietzsche è stato il pensatore più dissacratore della sua generazione. Ebbi la meglio in quella discussione perché in quell’anno era stato appena pubblicato il diario della madre di Pajetta, che era stata una grande comunista, insegnante, di famiglia medioborghese. In gioventù, aveva scritto un diario, che era stato scoperto e pubblicato dalla federazione comunista di Torino, in cui raccontava che la lettura di Nietzsche le aveva aperto la mente e fornito le armi critiche contro i luoghi comuni del pensiero chiesastico e della consuetudine borghese. Fu una buona prova per convincere il figlio, carissimo e difficile compagno.
Domanda: Nel documento della presidenza dell’Associazione per il rinnovamento della sinistra del maggio 2013, tra le altre cose, si legge: «Se la sinistra abbandona l’analisi critica della realtà economica e sociale determinata dai modelli di produzione e di consumo e della loro rappresentazione simbolica e culturale, rinuncia alla sua medesima ragion d’essere e diviene incapace di portare un utile contributo al risanamento dei mali presenti nella società». Una delle domande […] muove pressappoco da questa vostra considerazione, in altre parole dall’assunto che la crisi che viviamo, avanti tutto di civiltà, ha svelato la parzialità di una dottrina ideologica, quella neoliberale, che aveva e ha tra le sue condizioni d’essere quella di porsi appunto come oggettiva e ineludibile cornice dell’agire politico, estromettendo l’analisi critica dal campo della politica. La Sinistra, in particolare quella europea, è stata subalterna culturalmente prima ancora che politicamente a una visione del mondo che non le apparteneva: cosa ritieni ci sia alla base di questo pressoché totale appiattimento?
Risposta: Purtroppo di questa sudditanza fanno parte anche molti amici e compagni della mia generazione: è mancata l’analisi critica della realtà e conseguentemente della nostra realtà perché la frettolosa abiura, in luogo di un più serio processo di superamento, ha portato come conseguenza l’accettazione acritica del pensiero dei vincitori. Ho fondato questa associazione con l’obiettivo di contribuire a ricostituire i fondamenti della sinistra: la mancata revisione dei fondamenti del movimento comunista e della medesima idea socialista ha portato inevitabilmente al cedimento che dicevo: sono tutte giuste le idee dell’altra parte. Se non si riesce a distinguere quanto ci fosse di giusto nelle domande originarie, e quanto di sbagliato in alcune delle domande e in molte delle risposte, e non se ne cercano delle altre, non puoi che arrenderti al senso comune: quando si pensa a Gramsci e Togliatti, si deve ricordare che essi ebbero la capacità di leggere in chiave critica il loro passato per trovare la risposta alla loro sconfitta. Ed è per questo che poi Togliatti fece la politica che ancorò il partito alla democrazia, alla nazione, alla idea delle “riforme di struttura”, tenendo ferma la convinzione che un cambiamento fosse necessario nella democrazia e nella pace. Non è tra l’altro vera la vulgata della doppiezza togliattiana: lui si considerava, credo, sinceramente uno dei costruttori della parte “buona” dell’Urss. Non dimentichiamo che era stato un buchariniano. Pensava che pur col sangue, con le tragedie, i massacri, una nuova storia si era avviata.
Ma quando tu fai parte di una generazione che, sia pure faticosamente, si accorge che quella storia avviata non andava “verso il comunismo” ma si sostanziava in una dittatura burocratica (che sboccherà poi nel capitalismo selvaggio tanto in Russia quanto in Cina) devi avere la capacità di capire che qualcosa di profondo era sbagliato. Tutta colpa solo di Stalin? Non si può sapere che cosa sarebbe diventata la rivoluzione russa se Lenin non fosse morto così presto e se la sua NEP fosse continuata: anche Lenin credeva di applicare le idee rivoluzionarie di Kautsky, ma poi lo tacciò di “traditore”, perché anche Kautsky, come la Luxemburg, non concordava con la soppressione della dialettica democratica e delle libertà politiche.
Dunque era essenziale, e lo è ancora, capire quali siano stati i veri errori teorici oltre che pratici da cui è venuta la sconfitta drammatica del movimento comunista per un verso e la omologazione del movimento socialdemocratico per altro verso. Ma in luogo di questo sforzo di comprensione, purtroppo, vi è stata solo abiura. Demonizzare non serve a niente e, anzi, peggio, nasconde i propri errori e li ripete inconsciamente.
È parso, dopo l’89, che si volesse tornare alle origini e riscoprire Bernstein, che aveva ragione a definire passeggere le crisi del capitalismo. Ma questo non è avvenuto, in realtà, qui da noi. Perché se si ripensa alla esperienza e alla dottrina di quella prima generazione di riformisti bisogna ricordare che c’era in essi l’aspirazione al cambiamento socialista, inteso come mutamento dei meccanismi economici, non il cedimento a una concezione che oggi definiamo liberista.
Nel tempo presente il socialismo è diventato sinonimo di stato sociale, essendo dipendente dal ciclo economico, giacché utilizza i margini dell’economia corrente, quando interviene una crisi, va in crisi anch’esso. Lo stato sociale nasce in casa conservatrice e poi viene sviluppato dai socialdemocratici (e in Italia anche con il contributo determinante dal PCI) ed è cosa certo positiva: dà lavoro e comporta una distribuzione della ricchezza, ma non mette in discussione il modo dell’accumulazione e il suo fine. L’errore di coloro che hanno pensato che lo stato sociale non fosse sufficiente (com’è avvenuto per la parte detta “rivoluzionaria” del movimento socialista) non è stato quello di pensare che fosse pensabile e necessario un altro modo di produzione, ma nella concezione dell’insieme della realtà cui il fondamento economico appartiene e, dunque, nella concezione di quel che volesse dire un altro modello economico e in quale modo fosse perseguibile. L’errore fondamentale è stato, credo, la riduzione all’economia della critica sociale e la sottovalutazione – o la ignoranza – del ruolo parimenti essenziale dell’immaginario e del simbolico. Solo Gramsci, tra i marxisti del XX secolo, ha intuito – e non si può certo fargli colpa di non aver potuto andare sino in fondo nella sua ricerca – la complessità del reale e il ruolo determinante e autonomo di quella che in antico gergo si è chiamata la “sovrastruttura”.
Da quella amputazione nella concezione della realtà è venuta l’idea che il mutamento della proprietà dei mezzi di produzione e di scambio, cioè il passaggio del titolo giuridico della proprietà dal privato al pubblico, risolvesse l’insieme dei problemi. A questo si è ristretto il campo: non solo da Lenin e Stalin, ma già in Bernstein e Kautsky. Anche nel programma dell’Internazionale socialista democratica fino all’89 c’era il superamento del capitalismo: questa aspirazione, date le guerre, i massacri coloniali, lo sfruttamento del lavoro, le assurdità dell’assetto sociale capitalista, era certo giustificata, ma se per la parte “rivoluzionaria” l’errore è stato nella supposizione che il mutamento proprietario risolvesse tutte le contraddizioni (e, dunque, sul piano della pratica politica, l’esaltazione del volontarismo e della soggettività – cioè della funzione dominante del partito), per la parte “riformista”, mi pare, l’illusione è stata quella che le correzioni sociali nel modello dato portassero alla lunga anche al mutamento del modello.
Continuo a pensare che il problema sia e rimanga quello di una visione complessiva della realtà, dunque di una capacità di valutazione critica che vada oltre l’economico. È certo meglio, comunque, una volontà riformatrice, per quanto limitata, che l’accettazione del credo liberista, della fiducia cieca nel “mercato” inteso quasi come dato di natura (mentre è ovviamente creazione umana). Mancando una intenzionalità riformatrice, non puoi che accettare le ricette correnti o rimanere nell’alveo della nostalgia. Entrambi atteggiamenti sbagliati. Il momento che viviamo è per certi aspetti identico a quello della formazione dei primi partiti socialisti.
Domanda: È stato commesso principalmente il primo dei due errori di cui parli, anche in Italia…
Risposta: L’errore nel momento della metamorfosi del PCI non è stato quello di pensare che fosse necessaria una trasformazione, ma nel modo di farla. Bisognava capire che per creare in Europa e nel mondo un orientamento ideale alternativo occorreva maneggiare dei concetti diversi. La discussione su Kant e Hegel, oppure sul pensiero “debole” o quello “forte” gira tutta intorno a quali concetti maneggi. Ad esempio: qual è il motivo originario del movimento comunista? Il bisogno soltanto? No, non è vero, perché esso si incontra con un’esigenza di carattere puramente ideale, cioè etico. Se leggi il Manifesto dei Comunisti di Marx ed Engels, che quando lo scrissero erano due giovanotti di trent’anni, ti chiedi: perché vogliono cambiare? Solo perché individuano una legge della storia, quella della lotta di classe? No, perché ebreo l’uno e di famiglia cristiana l’altro, ereditano delle idee di ordine morale, ereditano, pur discutendola, un’etica. È una questione di giustizia, perché è “più giusta” una società di liberi e uguali. L’idea di giustizia non nasce in natura. E nemmeno quella di “sinistra”, che è un dover essere.
La questione delle questioni era ed è la questione morale, che non è una caccia al ladro, ma l’idea che il fondamento della politica non può che essere di natura etica. Il fondamento etico significa che anche la distinzione weberiana tra la morale delle intenzioni e della responsabilità sta in piedi fino ad un certo punto. Tanto è vero che con la morale della responsabilità, se vissuta dogmaticamente, si rischia di finire a tagliar le teste: i fondamentalismi religiosi dicono di appellarsi alla fede autentica e vera, il “socialismo scientifico” diceva di agire in nome della verità della scienza. Lo storicismo, che fu prevalente nel gruppo dirigente del PCI, ha il merito di essere almeno in parte un rimedio contro il dogmatismo (dico “in parte” perché anche qui c’è la versione dogmatica di chi pensa di essere proprietario del vero “senso della storia”) ma può scadere, come è scaduto, nella brutta caricatura opportunista secondo cui chi vince ha ragione.
Quando dico fondamento etico della politica per una sinistra consapevole, intendo una capacità di lotta contro ogni forma di integralismo, avvertendo però che il contrario dell’integralismo di qualsiasi specie non è l’assenza di qualsiasi valore ma l’assunzione di valori umanamente verificabili. In una società pluralista i valori di riferimento sono ovviamente diversi. I conservatori hanno una etica ben netta data dalla tradizione. Spesso non si sa più che vuole la sinistra, nel senso che sposa inconsciamente il punto di vista altrui. Ma se non ha un proprio punto di vista la sinistra è perfettamente inutile. Una fondazione etica significa, ad esempio, che dato il tramonto del “sole dell’avvenire”, è venuto il momento di sapere che la corrispondenza tra principi e prassi è il metro di misura. In effetti, qualcosa di questo ci fu nei primi socialisti, ma anche nella Resistenza e nella parte migliore dell’attivismo politico di lunghi anni di battaglia.
Dopo l’89, scusa l’autocitazione, ricordai come unico socialismo possibile il “socialismo dei comportamenti”. È una definizione un po’ buffa, e certo manchevole, tuttavia, come si vede, è messa in pratica da qualche movimento (pensa all’autoriduzione, per quanto possa apparire demagogica, degli stipendi dei parlamentari pentastellati). Mettere l’accento sui comportamenti non era inutile, visto quello che accade a sinistra anche dal punto di vista della correttezza. E serve comunque a dire che una comprensione critica della realtà è prima di tutto comprensione di sé stessi, perché facciamo parte della realtà sociale e diciamo di volerla modificare, in tutto o in parte. Bisogna ripensare tutto daccapo: noi vecchi dovremmo dirvi dei nostri errori, tocca a voi rifondare un nuovo pensiero, scrivere un nuovo “Manifesto”. Voi siete, potete essere, la generazione protagonista di un pensiero di trasformazione per la contemporaneità e di una nuova tensione ideale.
Domanda: La democrazia vive una fase di grave involuzione, i diritti sociali sono sotto attacco da decenni, e con essi, conseguentemente la libertà sostanziale dei lavoratori. Possiamo ricondurre ciò tanto a una crisi della modernità, i cui caratteri costitutivi starebbero secondo molti osservatori lentamente venendo meno, quanto agli esiti della rivoluzione neoconservatrice di cui parlavamo poc’anzi. Qual è la tua lettura, e quale pensi sia il nesso, se esiste, tra crisi della modernità e neoconservatorismo?
Risposta: La risposta dipende dal significato che si dà alla parola “modernità” che, come sai, è oggetto di discussione da che se ne incominciò a parlare alla metà dell’Ottocento. Se per modernità si intende la rottura di un sistema mentale determinato da valori estrinseci e immutabili e lo sforzo di autoconsapevolezza dei singoli e della comunità umana, siamo appena agli albori, basta vedere il rifiorire degli integralismi religiosi. Ma se per modernità si intende il complesso di valori determinati dal moto di trasformazione capitalistico (il prevalere del consumo come fine in se stesso, la trasposizione del danaro da mezzo a scopo universale, la chiusura individualistica cui fa riscontro la massificazione, la competizione esasperata matrice di violenza endemica, ecc.), se per modernità si intende il mito di un lineare progresso, il nesso tra crisi della modernità, controrivoluzione conservatrice, attacco ai diritti e alle libertà diviene evidente. La controrivoluzione neoconservatrice nasce di fronte a quello che fu definito “l’eccesso di domande” della democrazia già negli anni ’70 del secolo scorso, quando si esauriscono i “trenta anni gloriosi” del periodo postbellico e della prosperità crescente nei paesi a capitalismo maturo. Le domande eccessive erano appunto quelle indotte dalle speranze di un ininterrotto sviluppo capace di garantire a un tempo avanzamenti nelle condizioni delle classi lavoratrici e mantenimento delle gerarchie sociali e dei privilegi dati, speranze che in presenza della gara elettorale potevano portare e portarono al successo in Europa, per brevi periodi, le sinistre del tempo (anche, dopo, la Thatcher e Reagan): ma sinistre ormai pienamente prone alle idee neoliberiste. La tendenza conservatrice è un tornare indietro ai principi costitutivi di una società borghese e cioè alla soggezione piena delle classi subalterne alla logica del funzionamento capitalistico. Lo scambio – teorizzato come “nuovo riformismo”, e favorito dalla globalizzazione – è tra investimento di capitale e libertà e diritti (cosa evidente in Italia con il Jobs Act e in tutta l’Europa meridionale). Funzionale a questa visione è la delegittimazione dei partiti e di tutti i corpi intermedi (come i sindacati) e funzionale a questa delegittimazione è il sistema della corruzione endemica – che, forse, poteva essere almeno in parte contenuta o delimitata all’inizio degli anni ’80 (quando vi fu la denuncia di Berlinguer, allora schernita da taluni anche entro il suo partito). Bisogna sempre ricordare che la corruzione dei partiti, così come l’indebitamento degli stati, è utile alle esigenze delle forze dominanti.
Se si va più a fondo, e si intende la modernità come progetto razionale di assoggettamento all’uomo del mondo mediante la scienza e la tecnologia, la constatazione della sua crisi può portare ad esiti opposti. I francofortesi unendo la critica della modernità intesa come dominio della tecnologia (derivante dalla supposizione illuminista della assolutezza della ragione) alla critica della società borghese e dei rapporti di classe, possono aprire, com’è avvenuto, alla speranza di mutamenti sociali tali da rendere gli uomini e le donne protagonisti della propria storia e non inconsapevoli vittime di un destino assurdo da loro stessi costruito. Al contrario, la lettura del dominio della tecnica scissa dall’analisi dei rapporti tra gli uomini e tra le classi può portare a posizioni non solo conservatrici ma reazionarie all’estremo. Come accade a Heidegger (definitivamente svelato dalla pubblicazione dei suoi “quaderni neri”) che arriva al nazismo e al razzismo antisemita in nome del ritorno all’essenza dell’umano, tradita da quelli che hanno inventato la democrazia e la tecnica (da lui identificati con gli anglosassoni e gli ebrei), essenza identificata a sua volta nell’essenza del popolo tedesco di cui Hitler sarebbe stato il redentore. (Un delirio, come ha ribadito, secondo me giustamente, Emmanuel Faye dopo i “quaderni”).
Un tale delirio è stato l’aspetto estremo della crisi della modernità e pur ritornando a comparire in Europa non va confuso con il neoconservatorismo. Questo mantiene le forme della democrazia politica intesa come voto, trasformandola in quella che è stata chiamata postdemocrazia dato il dominio del capitale finanziario, la concentrazione dei mezzi di comunicazione di massa e il costo delle campagne elettorali. Il pensiero unico liberista si afferma perché le vecchie repliche della sinistra non hanno retto presentandosi, pur con accenti diversi o persino opposti, come fautrici dello statalismo contro l’iniziativa dei singoli e del collettivo contro l’individuale. Il desiderio e la scelta – cioè l’individuo e la libertà – sono sembrate appannaggio del capitalismo guidato dagli “spiriti animali” dell’uomo. L’assetto capitalistico si presenta come legge di natura. Ogni politica che ambisca a una qualche trasformazione, in sostanza, diventa una interferenza nel ciclo naturale.
Ma le ragioni storiche di una alternativa, mi pare, sono più che mai presenti. Il modello di incivilimento in cui viviamo fa acqua per la sua stessa natura, perché ha retto e regge solo su una parte di quella che si è chiamata la “natura dell’uomo”. Le persone non sono solo storia, come hanno largamente creduto le sinistre novecentesche, ma non è neppure vero che gli “spiriti animali” siano leggibili a senso unico. Un mondo così tecnologicamente avanzato che non è capace di debellare la fame di miliardi di esseri umani e non sa evitare le guerre, che sa reggersi solo sulla competizione più assurda, non può essere il migliore tra i modelli possibili. Certo, non se ne inventa un altro a tavolino, ma pian piano non potrà che emergere un nuovo ordine mondiale. Molecolarmente già avvengono modificazioni che bisogna essere capaci di cogliere. La rivoluzione femminile è in atto, quali che siano le resistenze (e i delitti). La miseria, com’era prevedibile, tracima. Finora abbiamo dato risposte parziali e sbagliate pensando di avere già la verità, adesso tocca a voi ripensare tutto questo ed elaborare una nuova visione. Bene raccogliere le memorie dei vecchi, ma fatevi avanti.
(Pandora Rivista, 17 aprile 2015)