di Emilia De Conti, ostetrica di Emergency
Sto per concludere la mia missione; sto chiudendo le valigie che in questi mesi si sono arricchite di esperienze, incontri ed emozioni: ho lavorato a un nuovo progetto che mi ha portato a conoscere l’Helmand e a incontrare molte donne.
Scrivo da Lashkar-gah, capoluogo della provincia dell’Helmand, nel sud dell’Afghanistan, nota per essere stata teatro di scontri cruenti nelle due decadi di guerra che hanno causato nel Paese una crisi umanitaria senza precedenti. Qui la guerra è finita tre anni fa; ci sono stati pesanti combattimenti fino all’agosto 2021, quando si è ridefinito l’assetto politico nel Paese. Spostandomi sul territorio durante i miei viaggi verso i Posti di primo soccorso di Emergency, ho potuto vedere ciò che resta degli edifici distrutti e ascoltare le storie di coloro che hanno subito questi anni di duro conflitto sulla loro pelle.
Ora che l’Afghanistan vive una fase storica di pace apparente, i bisogni sanitari – prima sovrastati dalla guerra – iniziano a fare più rumore, ma non trovano ascolto perché il sistema sanitario è al collasso. Dall’agosto 2021 le strutture di Emergency hanno cercato di controbilanciare la mancanza di assistenza, venendo incontro alle nuove esigenze di salute.
Sul territorio abbiamo avviato un nuovo progetto con l’obiettivo di convertire i Posti di primo soccorso (First aid posts – FAP), che fornivano una prima assistenza alle vittime di guerra o di traumi, in cliniche nelle quali i pazienti accedono alla medicina di base (Primary health centres – PHC) e in cui viene garantita la salute materna e riproduttiva. Ed è proprio dell’universo femminile che mi sono occupata in questi mesi, come ostetrica, facilitando l’inserimento della mia figura professionale nei cinque PHC di Emergency intorno a Lashkargah, per garantire assistenza alle donne in gravidanza, nel post-partum e nella pianificazione familiare.
Nello specifico, le ostetriche offrono visite gratuite, forniscono integratori alle pazienti – come ferro e acido folico – e trattamenti per disturbi della gravidanza; si occupano di aumentare la consapevolezza delle future madri nei comportamenti da tenere in gravidanza con sessioni di educazione e promozione della salute; consigliano il luogo più sicuro per il parto e condividono informazioni sull’importanza delle vaccinazioni per le pazienti e per il nascituro; individuano le situazioni che deviano dalla fisiologia ordinaria e indirizzano le donne verso centri di cura specialistici; eseguono visite alle madri e ai neonati e forniscono sostegno nell’allattamento; assistono le donne nella pianificazione delle gravidanze con l’educazione sessuale e la distribuzione gratuita di metodi contraccettivi. In due mesi i nostri PHC hanno garantito circa 550 visite prenatali – assistendo circa 500 donne in tutta la provincia –, visitato circa 60 madri con i loro bambini e fatto consulenze di pianificazione familiare, fornendo metodi contraccettivi a circa un centinaio di donne.
Quando, qualche mese fa, sono arrivata in Afghanistan non sapevo bene cosa aspettarmi: ero condizionata dall’immaginario che in Occidente abbiamo di queste terre. Mi avevano parlato di questo progetto, avevo letto la valutazione (assessment) sulle strutture che forniscono cure alle donne sul territorio e avevo cercato di prepararmi come meglio potevo ma, fino a quando non sono arrivata e non mi sono mescolata a questa terra e ai suoi abitanti, tutto rimaneva solo immaginazione. Nell’Helmand, una provincia in cui la situazione politica e culturale ostacola la vita delle donne, in cui non è permesso alle bambine e alle ragazze di frequentare la scuola oltre la 6a classe, in cui le donne possono uscire di casa per lunghi tragitti solo se accompagnate dal mahram (parente maschio), credo che un progetto che si prenda cura di loro sia prezioso. I bisogni legati alla maternità sono numerosi: il numero di figli per donna è molto alto, non è stato raro visitare donne alla decima, undicesima… quindicesima gravidanza. Non ci sono dati ufficiali e affidabili sulla mortalità materna, ma la percezione nella popolazione è che si tratti di numeri elevati.
In questi mesi ho lavorato per le donne e con le donne: le relazioni che sono nate con le ostetriche locali hanno reso quest’esperienza un vero rinnovamento per la mia vita. Sono ragazze giovani, forti e piene di sogni, fiduciose nella forza del corpo femminile nel dare la vita. Sono consapevoli di cosa comporti essere donna qui, ma anche di quanto cruciale sia il lavoro. Ho conosciuto diversi modi di vivere e di essere donna, ma in tutte ho trovato lo stesso desiderio di vita, di condivisione e di passione per il proprio lavoro.
Ora che la guerra è finita, il presente degli afgani sembra non interessare più nessuno: mi sono unita a Emergency perché ho sempre visto nel suo mandato sanitario l’opportunità di pensare e agire “contro” e “oltre” la guerra: anche a conflitto concluso, con Emergency proviamo a contrastare l’isolamento degli afgani e il disimpegno della comunità internazionale, intervenendo sugli effetti di una lunga storia di guerra che in questi territori ha lasciato in eredità cicatrici insanabili.
La guerra è non avere cura; è non ascoltare i bisogni silenziosi di coloro che portano avanti nuove vite; è la negazione dell’incontro e delle relazioni, ricchezze per la nostra esistenza. La guerra è finita, ma le sue conseguenze sono visibili ancora oggi.
Sarò sempre grata a queste donne. E alla loro cura.
(Rivista Emergency, dicembre 2024)