19 Maggio 2024
Altraeconomia

Le mille facce e differenze del movimento israeliano contro Benjamin Netanyahu

di Lidia Ginestra Giuffrida


Si fatica a respirare tra la folla di manifestanti, dall’alto si vede una distesa immensa di bandiere con la stella di David. Ad altezza uomo, invece, centinaia di migliaia di cartelli. I cecchini dell’esercito di Tel Aviv presidiano i tetti delle case di Gerusalemme Ovest, mentre un fiume di manifestanti sfila verso la Knesset, il Parlamento israeliano.

«Edan Alexander, 20 anni, riportatelo a casa», si legge in uno degli striscioni. Il fratello lo tiene gelosamente tra le mani, lo sguardo dritto di fronte a sé e la voce rauca di chi ha trasformato il dolore in rabbia: «Bibi, è il momento di dimetterti!». A fine marzo e poi ancora il movimento contro Benjamin Netanyahu è tornato in piazza con quella forza e quella determinazione che il 7 ottobre aveva improvvisamente congelato.

«Protestiamo da diverse settimane. Vogliamo che Netanyahu si dimetta e vada in prigione, stiamo cercando di fare più pressione possibile per chiedere il rilascio delle persone ancora trattenute a Gaza. Il mio governo sta uccidendo la mia gente e anche altre persone innocenti. Noi vogliamo la pace che in questa terra si traduce nella possibilità di vivere qui e fare in modo che i palestinesi abbiano il loro posto. Non vogliamo che questa guerra continui, e non vogliamo essere governati da persone fasciste e corrotte. Il governo non sta facendo niente per risolvere la situazione, la sta solo peggiorando perché Netanyahu ha paura di andare in prigione e sa che, quando finirà la guerra, lui verrà arrestato. Sta proteggendo i suoi interessi e non quelli delle persone», spiega una manifestante.

«Molti qui non vogliono la guerra a Gaza – continua – non vogliono che persone innocenti vengano ammazzate. Pensiamo che Hamas non meriti di esistere ma distinguiamo Hamas dai palestinesi. Speriamo che la guerra finisca ma non vogliamo più che Hamas governi Gaza. Ciò che è accaduto il 7 ottobre è stato un massacro e le persone di Hamas non sono parte della resistenza, sono criminali, noi ne siamo le vittime adesso, ma tutto il mondo potrebbe esserlo un giorno».

È il primo pomeriggio di quelli che saranno sette giorni ininterrotti di proteste in Israele per chiedere l’immediato rilascio degli ostaggi ancora trattenuti a Gaza e la caduta del governo Netanyahu. Una protesta che rispecchia tanto le tensioni interne, quanto i paradossi della società israeliana. Sebbene moltissimi cittadini del Paese siano furiosi contro Netanyahu e ne chiedano le dimissioni, la maggior parte dei manifestanti fa riferimento ai massacri del 7 ottobre come se il tempo si fosse fermato a quel giorno. La centralità e la violenza dell’esercito nella società israeliana non sembrano messe in discussione neanche di fronte al genocidio in corso a Gaza.

D’altronde, tra le centinaia di migliaia di persone che sono scese in piazza in questi mesi, ci sono israeliani di diversi orientamenti politici che si sono uniti in solidarietà alle famiglie degli ostaggi e all’indignazione per il loro abbandono dentro la Striscia. La maggior parte dei manifestanti, comunque, gravita intorno all’area di centrosinistra, sionisti liberali che già l’anno scorso protestavano contro il governo Netanyahu e la riforma della giustizia.

Allora al centro del movimento di protesta c’era il tentativo di difendere la Corte suprema israeliana dalla riforma portata avanti dal ministro della Giustizia Yariv Levin per conto del governo. Ma quello che sembra mancare nelle rivendicazioni democratiche dei manifestanti israeliani liberali di ieri e di oggi sono i diritti dei cittadini palestinesi, che non hanno mai avuto fiducia nel sistema giudiziario israeliano né tanto meno nella sua democraticità. D’altronde si tratta dello stesso tribunale che non ha impedito l’espropriazione indebita delle terre palestinesi, non ha protetto i cittadini arabi dalle demolizioni delle case, non ha difeso lo status della lingua araba, e ha permesso che altre leggi ingiuste e razziste venissero approvate.

Intanto in coda al corteo, distanti diversi metri dal resto dei manifestanti, alcuni cartelli recitano «nessuna democrazia sotto occupazione», «free Palestine», «stop the genocide», «democrazia per tutti».

Ada, una manifestante all’interno del piccolo gruppo di persone contro l’occupazione militare israeliana in Palestina, urla: «La democrazia non è possibile senza uguaglianza, la democrazia non può coesistere con l’occupazione e il controllo militare in Cisgiordania».

«Il governo in carica non è un’eccezione ma parte di un’ideologia e di un progetto fondato su supremazia etnica e razzismo – spiega l’attivista – Noi sappiamo di non avere solo un problema con il nostro governo ma con tutto il sistema di occupazione e colonizzazione della Palestina. Non vogliamo questa guerra, che non ha nessuno scopo, ma neanche l’occupazione militare israeliana in Cisgiordania. Non condividiamo le idee della maggior parte dei manifestanti qui oggi, ma questo è un grande gruppo che si oppone al governo, e dobbiamo sfruttarlo – continua – Personalmente non nutro nessuna aspettativa rispetto al dibattito in parlamento perché anche l’opposizione oggi è di destra, la sinistra sionista non è davvero sinistra, e la maggior parte dei cittadini israeliani è a favore della guerra. Ma noi siamo qui, anche se solo un piccolo gruppo, per alzare la nostra voce e ricordare che non esiste democrazia sotto occupazione».

All’interno delle proteste contro la coalizione di estrema destra è presente, infatti, una parte della popolazione israeliana che chiede anche la fine dell’occupazione, del regime di apartheid e del massacro in corso a Gaza. Si tratta del “blocco contro l’occupazione” che raccoglie diverse sigle tra cui Hadash (partito comunista con sede in Israele formato per il 90% da arabo-palestinesi) e il suo movimento giovanile, Breaking the Silence, Ong fondata da ex militari israeliani per far luce sulle politiche di occupazione, Standing together e altre. Insieme a loro anche i giovani israeliani che rifiutano il servizio militare, tre dal 7 ottobre a oggi, e diversi palestinesi con cittadinanza israeliana.

Lo spezzone in coda procede con rigorosa distanza dal resto dei manifestanti, quasi fosse un corpo estraneo. A seguire solo le forze dell’ordine. I metri che separano fisicamente il corpo centrale della manifestazione dal blocco contro l’occupazione sono una rappresentazione in scala ridotta della distanza che, dopo il 7 ottobre, divide le posizioni di chi sostiene la lotta contro l’occupazione dall’ampio movimento che è tornato a sfidare il governo Netanyahu.

Ma se da un lato la continuazione degli orrori della guerra in atto ha radicalizzato e reso sempre più distanti tutte le posizioni in campo, facendo carta straccia di ogni forma precedente di convergenza e collaborazione arabo-israeliana, dall’altra rende quest’ultima ancor più necessaria, mostrando in tutta evidenza l’impossibilità di far scomparire la questione palestinese sotto il tappeto della storia. Rimane così solo il fragile filo della speranza che il movimento guidato da liberali e familiari degli ostaggi possa portare a una riflessione più ampia e aprire nella società israeliana una discussione sui rapporti di dominio e supremazia a cui le comunità arabo palestinesi sono sottoposte da decenni. Questo nell’interesse di tutti coloro che vivono “tra il fiume e il mare”.


(Altraeconomia, 19 maggio 2024)

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