15 Aprile 2021
27esimaora.corriere.it

Perché le femministe chiedono di stralciare l’identità di genere dal Ddl Zan

di Monica Ricci Sargentini


Il Ddl Zan va cambiato. A cominciare dalla definizione di identità di genere. A sostenerlo non sono la Lega, Fratelli d’Italia o altre formazioni conservatrici ma una folta schiera di organizzazioni femministe, tra cui RadFem Italia, SeNonOraQuandoLibere, Arcilesbica e Udi, che fanno parte di una rete gender critical globale, presente in 130 nazioni, basata sulla Declaration on Women’s Sex-Based Rights

Da tempo queste donne, le cui storie in difesa delle istanze Lgbt non possono essere messe in discussione, chiedono un confronto all’onorevole Alessandro Zan, primo firmatario della legge contro l’omobitransfobia. «Le questioni in gioco sono troppo importanti, toccano la radice dell’umano e la vita delle donne, delle ragazze, delle bambine e dei bambini» spiega Marina Terragni che con RadFem Italia è la referente nazionale della rete sui diritti delle donne basati sul sesso. Dubbi cui si sono associati anche altri esponenti del centrosinistra che in un appello hanno chiesto una modifica della proposta.

Il dialogo, però, sembra avere poche chance di decollare a giudicare dalla dichiarazione di ieri su Twitter del segretario del Pd Enrico Letta: «Ho incontrato il nostro deputato Alessandro Zan. L’ho incoraggiato e gli ho confermato il nostro impegno perché diventi legge il Ddl Zan. Perché ci si può occupare sia di riaperture che di diritti. E se si fanno bene entrambe le cose, la società sarà migliore. No al benaltrismo».

Tra i critici della legge più che un timore vi è la certezza che l’inclusione del concetto di identità di genere porterebbe a quelle aberrazioni orwelliane cui stiamo assistendo in varie parti del mondo occidentale. Gli esempi sono tanti. In Norvegia, dove è stata approvata una normativa simile a quella messa a punto da Zan, la deputata Jenny Klinge, è stata denunciata per avere detto che «solo le donne partoriscono». Nelle università anglosassoni le professoresse gender critical raccontano, rischiando la carriera, la perdita di libertà accademica e il clima intimidatorio nel discutere sesso, genere e identità di genere. In America dove le competizioni sportive femminili nelle scuole sono aperte a chiunque si dichiari donna, con ovvie conseguenze di imparità, sono ormai diversi gli Stati che hanno fatto marcia indietro. L’ultimo è stato il Mississippi lo scorso 12 marzo.

In California 261 detenuti che si dichiarano donne hanno chiesto il trasferimento in carceri femminili dopo l’approvazione di una legge che concede ai prigionieri transgender e non binari il diritto di scegliere in quale istituto penitenziario andare senza guardare all’anatomia. Le detenute hanno paura, come racconta il Los Angeles Times, dicono che le guardie le hanno avvisate: «Gli uomini stanno arrivando». Lo stesso accade in Canada dove il self id è in vigore dal 2017. A Vancouver un padre, Robert Hoogland, è finito in galera perché si ostinava a voler impedire alla figlia 13enne di assumere i bloccanti della pubertà. Il 10 aprile nella città canadese si è svolta una manifestazione no-partisan in suo sostegno, gli oratori protetti da guardie giurate.

L’identità di genere, sostengono le femministe radicali, è un concetto giuridicamente inesistente nel nostro ordinamento. Includerlo nel ddl Zan, già approvato alla Camera e in attesa di essere calendarizzato al Senato, potrebbe aprire anche qui la strada al self-id e all’espropriazione degli spazi femminili. «Da mesi e invano il femminismo – dice ancora Terragni – chiede di poter esporre le ragioni della propria contrarietà ai proponenti della legge, probabilmente convinti che il target Lgbtq è elettoralmente più succulento di quello femminile. Sbagliano: in Gran Bretagna dopo il sondaggio di The Times (il 94% è contrario alla gender identity), Londra ha fatto marcia indietro sul self id».


(27esimaora.corriere.it, 15 aprile 2021)

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