Nelle proteste che ormai da più di un mese vanno avanti in Bielorussia, le donne hanno un ruolo fondamentale, che ha catturato l’attenzione dei media di tutto il mondo. È donna Svjatlana Tsikhanouskaya, che ha sfidato alle elezioni il presidente Alexander Lukashenko, e che insieme a Maria Kolesnikova e Veronika Tsepkalo, altre due figure femminili dell’opposizione, è diventata simbolo del movimento del dissenso nel paese. E sono state le donne a organizzare alcune delle prime manifestazioni contro il risultato delle elezioni, scendendo in piazza vestite di bianco, reggendo nelle mani fiori e striscioni.
Secondo la giornalista bielorussa Hanna Liubakova, Lukashenko stesso, forse involontariamente, ha aiutato con il suo atteggiamento fortemente misogino la crescita di queste figure e del supporto nei confronti di Tsikhanouskaya.
A maggio, ad esempio, aveva dichiarato che la società bielorussa non era abbastanza matura per eleggere una donna. «Molte donne e molti uomini mi hanno detto prima delle elezioni che trovavano scandaloso il suo atteggiamento irrispettoso nei confronti di una leadership femminile. Ed è per questo che hanno scelto di sostenere Tsikhanouskaya», ha scritto Liubakova su Twitter.
Tichanovskaja e Tsepkalo sono in seguito fuggite dalla Bielorussia per paura di ritorsioni nei confronti dei loro familiari. Kolesnikova è rimasta nel paese, è stata arrestata al confine con l’Ucraina il 7 settembre, è detenuta a Minsk, la capitale, è stata incriminata per aver incitato ad “azioni volte a minare la sicurezza nazionale” – accusa che prevede una pena massima di cinque anni di carcere. Ma questo non ha fermato i movimenti.
La giornalista Yasmeen Serhan nota su The Atlantic come la forte presenza femminile non sia una prerogativa solo della Bielorussia, ma che anzi ci sia una tendenza «in atto nei movimenti globali di massa: le proteste alle quali partecipano le donne sono di solito più grandi, meno violente e più versatili rispetto alle altre. E, cosa più importante, hanno maggiori probabilità di successo».
Nell’ultimo decennio le donne sono diventate simboli in movimenti di protesta in diverse parti del mondo, come Algeria, Sudan, Stati Uniti, o hanno avuto un ruolo fondamentale nell’animare manifestazioni. È accaduto ad esempio nel 2019 in India per quanto riguarda la legge sulla cittadinanza, o l’anno prima in Brasile, nelle proteste contro il presidente Jair Bolsonaro. In Libano, le voci di protesta contro il governo e la corruzione della classe dirigente sono in prevalenza femminili. «Il grande numero di donne coinvolte è impressionate», si legge su Deutsche Welle, «le donne nel movimento di protesta mostrano un coraggio e una forza particolari, e spesso sono in prima linea nelle manifestazioni». Come ha affermato Laila Zahed, 60 anni, che ha partecipato a quasi tutti i cortei dall’inizio delle proteste in Libano il 17 ottobre dello scorso anno, «la rivoluzione era ed è donna».
La ragione di questa maggiore visibilità risiede in parte nel fatto che i movimenti non violenti di tutto il mondo sono più inclusivi, scrive Serhan, che cita una ricerca dell’università di Harvard condotta dalle docenti Erica Chenoweth e Zoe Marks. Secondo lo studio, fino al 70% delle proteste non violente dal 2010 al 2014 hanno visto «un numero contenuto o molto vasto di donne in prima linea»: si è trattato di movimenti più inclusivi e aperti, ma anche più efficaci nel raggiungere gli obiettivi che si erano prefissati.
La questione però non è solo l’apertura dal punto di vista del genere e dunque la maggiore partecipazione, ma anche le tattiche usate nelle manifestazioni. «Quando c’è un alto numero di donne partecipanti, è più probabile che il movimento mantenga un’attitudine non violenta», ha affermato Chenoweth, secondo cui un’ipotesi è che le donne abbiano sulle spalle la responsabilità di più persone rispetto agli uomini, e che questo le motivi a stare più lontane da ulteriori pericoli.
Serhan scrive che i movimenti guidati da donne o con un grosso contributo femminile «tendono a essere meno violenti, in parte perché è più difficile reprimere con la forza manifestazioni in cui ne sono presenti molte, soprattutto in società patriarcali come quella bielorussa». Questo di certo non significa che le donne non subiscano repressioni violente.
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Una caratteristica dei movimenti non violenti negli ultimi anni, spiega Serhan su The Atlantic, è stata la capacità di diversificare le proteste rispetto a semplici manifestazioni di piazza. E anche in questo le donne hanno rivestito un ruolo cruciale nell’inventare metodi innovativi di protesta. Basti pensare a boicottaggi, scioperi e altre forme di pressione verso il potere.
Questo, secondo la ricercatrice di Harvard Chenoweth, dipende anche dal fatto che grazie al loro ruolo nella società, le donne hanno un certo senso nel riconoscere i migliori strumenti da utilizzare per realizzare il cambiamento sociale. Ad esempio, il primo episodio documentato di resistenza non violenta in Nord America fu da parte di donne irochesi, una popolazione di nativi americani, nel XVI secolo che chiesero il diritto di veto alle dichiarazioni di guerra. Si sono rifiutate di raccogliere i raccolti e nutrire gli uomini e di costruire scarpe, finché non hanno guadagnato quel diritto dai capi tribù.
«Abbiamo molti esempi di donne che sfruttano effettivamente i loro ruoli di genere per costruire potere sociale», ha aggiunto Chenoweth. Serhan su The Atlantic ricorda le madri di Plaza de Mayo, un movimento nato nel 1977 da un gruppo di donne argentine i cui figli erano scomparsi a causa della dittatura militare: le loro rivendicazioni hanno avuto effetto anche «grazie alla capacità delle partecipanti di fare leva sulla loro condizione di madri in lutto. Sebbene il governo abbia cercato di dipingerle come las locas, ossia “le pazze”, alla fine ha preferito non reprimere il movimento per timore di possibili reazioni». Sebbene il contesto sia diverso, le proteste in Bielorussia pongono una sfida simile alle autorità. Secondo Serhan, per il semplice fatto di essere lì, donne come Bahinskaya, la 73enne arrestata sabato diventata uno dei simboli delle proteste, «sono state capaci di sfruttare a loro vantaggio stereotipi tradizionali e di genere».