di Franca Fortunato
A un anno dal massacro di Hamas del 7 ottobre, con morti, violenze e ostaggi, e dopo un anno di vendetta di Israele sul popolo palestinese con Gaza rasa al suolo, 42.000 morti di cui 20.000 bambine/i, migliaia di feriti, mutilati, di violenze dei coloni in Cisgiordania, di un popolo lasciato senza cibo, acqua e medicine, la parola pace dentro e fuori Israele e nei territori palestinesi è bandita da chi ha scatenato l’inferno, seminando morte, odio e distruzione. Eppure tra tanta tragedia ci sono israeliani e palestinesi, di cui i mass-media non parlano, che continuano tra tanti ostacoli a coltivare e tenere in vita pratiche di pace, di dialogo e riconciliazione come unica alternativa alla guerra. Le loro voci, schiacciate ma non ammutolite, e le loro storie sono state raccolte dalla giornalista Chiara Zappa nel libro di recente pubblicazione Gli irriducibili della pace – Storie di chi non si arrende alla guerra in Israele e Palestina, edito da TS.
«Mi rifiuto di battermi per Israele senza battermi anche per la Palestina», scrive la cantante israeliana Noa nella prefazione e invita a non schierarsi «né da una parte né dall’altra, ma piuttosto schierarsi per la pace, per l’umanità, per la dignità, per la vita». È quello che hanno fatto per tanti anni le donne e gli uomini che nel libro raccontano le loro storie fatte di pratiche di pace, di conoscenza l’uno dell’altro, di rispetto e di fiducia reciproca, per una riconciliazione e una convivenza che li orienta anche dentro l’inferno scatenato da Hamas e dal governo di Netanyahu. Tante le voci e le storie di israeliane/i e palestinesi che meritano di essere ascoltate e conosciute. Con la loro esperienza sono lì a dimostrare che una convivenza e una riconciliazione, dopo tanta distruzione, dolore e odio, un giorno in Terra Santa sarà ancora possibile. Layla, madre palestinese di un villaggio a pochi chilometri da Betlemme, ha visto morire tra le sue braccia il figlio di tre mesi intossicato dal fumo dei lacrimogeni dopo un’incursione in casa dell’esercito israeliano che ha poi ostacolato l’arrivo in ospedale per salvarlo. Dopo anni di dolore e di odio verso “il nemico” trova la forza di perdonare e riconciliarsi stando in un’associazione di palestinesi e israeliani che hanno perso un familiare. «Per la prima volta mi resi conto che condividiamo lo stesso dolore, le stesse lacrime.» È la stessa consapevolezza che spinge Chon, l’ufficiale israeliano che dopo anni di “violenza” e “terrorismo” a Gaza e Cisgiordania si «rende conto di aver «disumanizzato l’altro disumanizzando se stesso, e decide di dire basta. Diventa obiettore di coscienza, fonda il movimento “Combattenti per la pace” tra ex soldati e ufficiali israeliani e palestinesi che hanno partecipato alla lotta armata contro Israele» e una compagnia teatrale binazionale «per sfatare miti e pregiudizi, costruire la fiducia reciproca, riumanizzare l’altro». Chon come Tal, Sofia, prima obiettrice dopo il 7 ottobre, e Ben, è in carcere per aver rifiutato di partecipare alla guerra. Samah e Nir, una palestinese israeliana e un ebreo del “Villaggio della pace”, fondato nel 1950 da un frate domenicano, esempio di convivenza di due popoli e una terra, hanno rifiutato “i fucili di assalto” dati dal governo israeliano. Ariella, cofondatrice del movimento “Le donne portano la pace”, e Reem di quello palestinese “Le donne del sole”, candidate al premio Nobel per la pace, tre giorni prima del 7 ottobre hanno marciato insieme da Gerusalemme Est e Cisgiordania fino al mare. Altre voci, altre storie, si uniscono a queste e nessuna si arrende alla guerra, custodendo i semi che un giorno, si spera, germoglieranno e porteranno ai due popoli di quella terra insanguinata pace e riconciliazione.
(Il Quotidiano del Sud, rubrica “Io Donna”, 5 ottobre 2024)