di Flavia Landolfi e Manuela Perrone Polis
Niente più obbligo, per il giudice, nei casi di separazione, di adottare provvedimenti «con esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale dei figli». Al magistrato è affidato solo il compito di disporre che «i figli minori restino affidati a entrambi i genitori». Ruota intorno al principio della bigenitorialità perfetta e dell’affido non condiviso ma paritetico, il disegno di legge 832 “Modifiche al Codice civile, al Codice di procedura civile e al Codice penale in materia di affidamento condiviso”. Il provvedimento in 18 articoli, all’esame della commissione Giustizia del Senato in sede redigente – ossia con una corsia accelerata che ne prevede l’arrivo in Aula blindato – è proposto da 14 senatori della maggioranza (Fdi e Noi Moderati). Primo firmatario è Alberto Balboni, Fratelli d’Italia, presidente della commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama. Relatore è Pierantonio Zanettin di Forza Italia.
Il Ddl, già ribattezzato “Ddl Salomone” nella petizione che ne chiede lo stop firmata da quasi mille persone in poche ore, rischia di mutare profondamente il Dna del diritto di famiglia e di incidere pesantemente sulla vita dei figli di genitori separati. Che in un batter d’occhio potrebbero ritrovarsi a fare la spola tra due case (è previsto l’obbligo di doppio domicilio), costretti alla pari frequentazione con entrambi i genitori stabilita da giudici che, di fatto, si troverebbero le mani legate. Eliminando il riferimento all’interesse del minore, infatti, sono gli adulti e i loro bisogni che assurgono al centro del nuovo diritto di famiglia. Da qui il soprannome di “disegno di legge Salomone”, dalla storia della Bibbia in cui il re noto per la sua saggezza, di fronte a due madri che si contendevano un figlio, suggerì di tagliare a metà il bambino per far emergere quale delle due tenesse davvero sua alla vita. Tagliare a metà i bambini di qualsiasi età è ciò che rischia di accadere nei tribunali italiani. «Gentile presidente Meloni – si legge in una lettera dell’associazione RadFem alla premier Giorgia Meloni – auspichiamo con questa nostra di avere sollecitato la sua attenzione su un disegno di legge che qualora perfezionasse il suo iter sarebbe all’origine di molte sofferenze e di molte ingiustizie ai danni dei bambini e delle loro madri».
Il precedente e la sede redigente
In principio fu Pillon, il senatore leghista che già nel 2018 tentò un giro di vite nella stessa direzione sulla legge 54/2006, quella che tuttora regolamenta in Italia l’affidamento condiviso dei figli di genitori separati. Ma dovette fermarsi di fronte all’ondata di contestazioni che da tutte le parti, in primis dal fronte delle associazioni femministe, piovvero sul suo Ddl: quel provvedimento venne accantonato e andò a finire su uno dei tanti binari morti in cui si dirottano le riforme velleitarie, prive di reale sponda politica. Questa volta, però, i numeri sulla carta ci sono tutti. E la sede redigente permette al nuovo disegno di legge di marciare a tappe forzate: dopo le audizioni – i gruppi ne hanno chieste oltre 60 – i senatori esamineranno e voteranno i singoli articoli in commissione per poi portare il testo perfezionato in Aula dove sarà votato o respinto. Senza alternative. Toccherà poi alla Camera esaminarlo, ma è evidente che a quel punto un passo di lato sarà molto più complicato.
Il mito della bigenitorialità perfetta
Tra i punti salienti contestati anche al Ddl Pillon c’è quello della bigenitorialità perfetta, da garantire a ogni costo. Oggi l’articolo 337-ter del Codice civile afferma che il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ogni genitore e «rapporti significativi» con i parenti e affida al giudice, in caso di separazione, il compito di adottare i provvedimenti «con esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale» dei figli. Nella formulazione proposta dal Ddl 832, «il figlio minore ha diritto, nel proprio esclusivo interesse morale e materiale, di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori e rapporti significativi con i parenti», mentre «il giudice che disciplina l’affidamento della prole dispone che i figli minori restino affidati a entrambi i genitori» e che la collocazione nelle case sia paritetica. Il giudice in pratica scompare, ridotto a una sorta di passacarte, spogliato della funzione di valutare il supremo interesse dei bambini.
L’allontanamento in casa-famiglia per «gravi motivi»
Ma non solo. Torna in pista, con tanto di certificazione con il timbro della legge, il ricorso alla casa-famiglia, perché il giudice «può per gravi motivi ordinare che la prole sia collocata presso una terza persona, preferibilmente dell’ambito familiare o, nell’impossibilità, in una comunità di tipo familiare». Quali potrebbero essere i “gravi motivi” così genericamente definiti? In questi tempi bui in cui il costrutto ascientifico dell’alienazione parentale dilaga con i nomi più disparati (dal “rifiuto genitoriale” alla “madre ostativa”) nei tribunali civili da Nord a Sud della penisola, sembra davvero l’apertura di una autostrada per chi usa la clava dei mille volti della Pas per vendicarsi sulle madri, un assist alla violenza di Stato. Ad avvalorare questo sospetto c’è la relazione introduttiva al Ddl. «L’articolo 16 – si legge – potenzia le previsioni dell’articolo 473-bis.39 del Codice di procedura civile intervenendo in tutte quelle situazioni in cui un genitore compie unilateralmente atti che richiedono l’accordo con l’altro, azzerando tali iniziative; ovvero nel caso in cui abbia costruito ad arte situazioni ostative al contatto del figlio con l’altro genitore».
Doppio domicilio e parità di frequentazione
L’esercizio della bigenitorialità imposta dall’alto poggia su alcuni pilastri, anche questi già presenti nel cestinato Ddl Pillon. Il primo è il doppio domicilio. All’articolo 1 si stabilisce che «il minore ha il domicilio del genitore con il quale convive», «ovvero di entrambi se si trova in affidamento condiviso», prevedendo poi all’articolo 3 che «la responsabilità genitoriale è l’insieme dei diritti e dei doveri dei genitori che hanno per finalità l’interesse dei figli». Viene soppressa la facoltà dei genitori di stabilire in modo condiviso «la residenza abituale del minore». Una previsione, quella del doppio domicilio, che aveva già fatto storcere il naso a molti giuristi, che ne avevano ravvisato sia profili di incostituzionalità per l’indebita ingerenza dello Stato nella vita dei privati sia la violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1950, secondo cui «ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza».
Frequentazione paritetica e best interest del minore
Chiaramente la previsione del doppio domicilio è prodromica a un altro principio fissato nel Ddl e già sconfessato da diverse sentenze della Cassazione: quello dell’obbligo per i figli di alternarsi in modo paritetico tra l’abitazione materna e paterna, stabilito per i minori di qualsiasi età, anche neonati, senza alcuna valutazione del caso concreto. Fiumi di inchiostro sono stati versati sul principio del best interest [superiore interesse] del minore, che non dovrebbe mai sottostare alle esigenze degli adulti. La giurisprudenza degli ultimi anni si è affannata a sottolineare che il figlio dei genitori separati ha il diritto di non passare come un pacco da una casa all’altra senza soluzione di continuità ma che al contrario, proprio come la storia di Salomone insegna, i genitori devono saper fare un passo indietro e rinunciare al “possesso paritetico” del proprio figlio. La previsione del disegno di legge, invece, travolge l’istituto dell’assegnazione della casa familiare, disciplinato dall’articolo 337 sexies del Codice civile, ossia il concetto dell’abitazione presso la quale si è svolta abitualmente la vita domestica e il diritto dei figli di conservare l’habitat domestico senza dover pagare per la separazione dei genitori il prezzo di essere allontanati dal cuore delle consuetudini in cui si esprime e si articola la vita familiare.
Il mantenimento paritetico
Come conseguenza della pariteticità, il Ddl propone anche il mantenimento a carico di entrambi i genitori e la scomparsa della proporzionalità rispetto alle risorse economiche di ciascuno. «La filiazione – recita la norma – impone pariteticamente ai genitori l’obbligo di provvedere alla cura, all’educazione, all’istruzione e all’assistenza morale dei figli». Facile intuire che, a cascata, sembrerebbe derivarne la scomparsa dell’assegno di mantenimento a favore del mantenimento diretto, con un rimborso delle spese straordinarie sempre stabilito al 50% senza alcuna valutazione sull’eventuale divario economico tra padre e madre. Divario sul quale i dati periodicamente raccolti dall’Istat e dall’Inps non lasciano adito a dubbi: i genitori più fragili dal punto di vista economico sono le madri. Le nuove povere d’Italia. Quelle a più alto rischio di marginalizzazione. Ancora una volta, si prescinde dalla realtà dei casi concreti per rincorrere l’ideale astratto della bigenitorialità perfetta.
Il coordinatore genitoriale
Ciliegina sulla torta, tornano in pista altri due istituti resi “famosi” dal Ddl Pillon: l’obbligo di mediazione e il possibile ricorso al coordinatore genitoriale. Il vecchio disegno di legge aveva provato a infilarli nell’imbuto del diritto di famiglia che, vale la pena ricordarlo, deve sempre fare i conti con le fonti superiori del diritto, dalla Carta costituzionale ai moltissimi accordi internazionali sulla tutela dell’infanzia. In particolare, il provvedimento stabilisce che il giudice «invita le parti a redigere un piano genitoriale, congiunto o disgiunto, che riporta il regime di vita precedente dei figli e dettaglia le regole della loro futura gestione, con l’eventuale ausilio di un operatore specializzato, denominato coordinatore genitoriale, scelto dal giudice o dalle parti stesse nell’ambito degli esperti nella mediazione di coppie ad elevata conflittualità». Se il tentativo non riesce il giudice detta le relative regole e può assegnare al coordinatore, con il consenso delle parti, «il compito di coordinare la responsabilità genitoriale per un determinato periodo di tempo, curando l’osservanza delle regole e l’attuazione del piano».
La mediazione obbligatoria e le spese raddoppiate
Come allora, anche oggi è facile prevedere che la norma sulla mediazione solleverà più di un’obiezione. L’articolo 13 prevede che «in tutti i casi di disaccordo nella fase di elaborazione di un affidamento condiviso le parti hanno l’obbligo, prima di adire il giudice e salvi i casi di urgenza o di grave e imminente pregiudizio per i minori, di rivolgersi a un organismo di mediazione familiare, pubblico o privato, o a un mediatore familiare libero professionista per acquisire informazioni sull’opportunità di un eventuale percorso di mediazione familiare». Solo il primo incontro è gratuito e può svolgersi anche individualmente a richiesta anche di una sola delle parti. Se una delle parti non ottempera, il procedimento si avvia ugualmente per l’iniziativa dell’altra. Laddove l’intesa non si raggiungesse, sarebbe necessario rivolgersi al tribunale, con nuovi costi. Spese raddoppiate, quindi, a tutto discapito, di nuovo, di chi solitamente tra i genitori è più fragile dal punto di vista economico.
E la violenza domestica dov’è?
Mai nel testo del provvedimento compare la questione della violenza domestica, la vera grande assente, la convitata di pietra. Eppure i dati recentissimi del servizio analisi criminale della Polizia sono lì a ricordarci che dal 2019 maltrattamenti e stupri sono cresciuti del 35%. Eppure già con la legge vigente, secondo quanto rilevato da un’indagine dell’associazione Goap che gestisce il centro antiviolenza di Trieste, bambine e bambini finiscono in affido condiviso in oltre il 70% dei casi in cui risultano querele, indagini o condanne per violenza nei confronti del padre da parte delle madri. Quella violenza che nei tribunali civili diventa, appunto, invisibile, derubricata a conflitto, persino quando in sede penale è stata accertata.
La Convenzione di Istanbul, questa sconosciuta
Eppure ancora la Convenzione di Istanbul, che con la ratifica del 2013 è diventata legge dello Stato, all’articolo 31 impone all’Italia di adottare misure legislative o di altro tipo «necessarie per garantire che, al momento di determinare i diritti di custodia e di visita dei figli, siano presi in considerazione gli episodi di violenza che rientrano nel campo di applicazione della Convenzione», nonché «le misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che l’esercizio dei diritti di visita o di custodia dei figli non comprometta i diritti e la sicurezza della vittima o dei bambini». L’amnesia del disegno di legge sulla violenza contro le donne è evidente. Non solo: a procedimenti già affollati di soggetti terzi chiamati a intervenire – avvocati, tutori, consulenti tecnici, assistenti sociali – il Ddl ne aggiunge di nuovi, confermando la tesi di chi vede nelle separazioni e negli affidi un business sempre più redditizio. Sulla pelle dei bambini.
(Il Sole 24ore, 4 aprile 2025)