di Alberto Leiss
Ieri con alcuni amici di Maschile plurale, provando a scrivere un testo sulla violenza degli uomini contro le donne in vista del prossimo 25 novembre (giornata internazionale contro queste violenze) ci siamo accorti di quante volte tornasse il termine “identità”. Identità di sesso, identità di genere, identità maschile ecc.
Qualcuno ha detto di non amare questa parola, per il rischio di derive, appunto “identitarie”, che può evocare. Disamore e sospetto linguistico abbastanza condivisi. Quindi ricerca di altri termini: soggettività, desiderio, sguardo, punto di vista…
Ciò che non mi è piaciuto in tutta la vicenda che ha portato al voto “tagliola” del Senato è stato precisamente il peso, a partire da certe formulazioni dello stesso testo della norma, dei fattori identitari.
Quelli più odiosi – gli applausi dai banchi della destra quando i “no” hanno prevalso – ma anche certe dichiarazioni venute dalla (ex?) maggioranza che sosteneva il provvedimento, del tipo: traditi dal voto segreto, ma siamo noi gli unici e veri difensori dei diritti di omosessuali, trans e delle tante declinazioni della soggettività comprese nel mondo Lgbtqia+.
Un lettore della Repubblica ha scritto domenica alla rubrica di Francesco Merlo affermando di vedere «un bicchiere mezzo pieno» nella «penosa vicenda del decreto Zan». Perché «è stata una delle rare battaglie che restituiscono identità tanto alla sinistra quanto alla destra in modo chiarissimo. Un vero spartiacque, finalmente». Ma la risposta di Merlo è stata tranchant: «Riempito così il suo bicchiere va subito svuotato: i diritti degli omosessuali non sono né di destra né di sinistra».
Il giornale “fondato da Eugenio Scalfari” ha ospitato altri interventi.
Se la lettera di Renzi pubblicata sabato non era molto credibile nel suo “saggio” lodare il compromesso in politica (per addossare la colpa di tutto al Pd di Letta e ai 5 Stelle), anche la sicurezza magniloquente con cui il senatore Zan ha raccontato – rispondendo a Renzi – che «il ddl Zan», detto così in terza persona, ha attivato in due anni un «percorso di educazione alla democrazia» per una intera «generazione abituata a percepire il proprio destino lontano dalle istituzioni», mi è suonata come una nota eccessiva.
Credo che Zan avrebbe fatto meglio a ascoltare e riflettere su alcune delle critiche alla sua legge che sono venute da una parte importante del femminismo italiano, e a cercare un dialogo con quel mondo cattolico, e anche liberale, che è preoccupato delle possibili forzature derivanti da una norma che persegue non solo i reati di violenza, insulto, discriminazione, ecc. ma anche l’“istigazione” a commetterli.
E questo non tanto in omaggio alla logica del “compromesso” – che pure spesso è opportuno – quanto all’interesse più vero delle singole persone che la legge dovrebbe tutelare.
Viviamo un tempo di radicale “transizione” – ne parla una densa intervista del filosofo transgender Paul B. Preciado a Chiara Valerio, sull’ultimo numero dell’Espresso – in cui anche la differenza e le differenze che viviamo rispetto ai nostri corpi-mente sessuati mutano la radice di un simbolico millenario.
La scrittura di una norma dovrebbe saper esprimersi nel linguaggio più comprensibile, condiviso e aperto a un senso comune in continua e sofferta evoluzione.
Lo ha scritto – ancora su Repubblica – Natalia Aspesi, augurandosi un cambio di prospettiva, e una «prossima Zan più realistica, più positiva, più approvabile». Se lo stile delle sue parole, ancora prima dei contenuti, fosse preso in considerazione, allora potrebbe essere vero che, ogni tanto, da una cosa cattiva ne può nascere una buona.
(il manifesto, 2 novembre 2021)