di Franca Fortunato
Sono passati settant’anni da quel tragico giorno (28 novembre) del 1946 quando Giuditta Levato, la contadina comunista nata nel 1915 a Calabricata di Albi (oggi Sellia Marina), venne uccisa sulle terre date in concessione alla cooperativa di cui faceva parte ed espropriate al barone latifondista Pietro Mazza in forza del decreto sulle “terre incolte” del 1944 del ministro calabrese dell’Agricoltura Fausto Gullo. Quella mattina Giuditta, nonostante fosse al settimo mese di gravidanza del suo terzo figlio, e le compagne e i compagni della cooperativa si mossero verso i campi, appena seminati, dove trovarono ad attenderli il barone che ne rivendicava la proprietà. Per impedire la coltivazione, il barone ordinò che una mandria di buoi pascolasse nei campi. Giuditta e le sue compagne cercarono di allontanare i buoi, quando un mandriano del barone sparò un colpo di fucile e la colpì all’addome. Cadde a terra, esangue, la portarono prima a casa e poi in ospedale dove morì di lì a poco. Aveva trentun anni. Lei che aveva aderito al Partito Comunista italiano, è al dirigente comunista e sindacalista Pasquale Poerio che affidò le sue ultime parole: «Compagno, dillo, di’ a tutti i capi, e agli altri compagni che io sono morta per loro, che io sono morta per tutti. Ho tutto dato io alla nostra causa, per i contadini, per la nostra idea; ho dato me stessa, la mia giovinezza, ho sacrificato la mia felicità di giovane sposa e di giovane mamma. Ai miei figli, essi sono piccoli e non capiscono ancora, dirai che sono partita per un lungo viaggio, ma ritornerò certamente, sicuramente. A mio marito dirai che l’ho amato, muoio perché volevo un libero cittadino e non un reduce umiliato e offeso da quegli stessi agrari per cui ha tanto combattuto e sofferto. Ma tu, o compagno, vai al mio paesello e ai miei contadini, ai compagni, di’ che tornerò al villaggio nel giorno in cui suoneranno le campane a stormo in tutta la vallata».
Giuditta Levato è diventata negli anni un’icona, un simbolo di forza e coraggio femminile. A lei sono stati dedicati libri, saggi, ballate, intitolate strade, musei, sale istituzionali. Io, che non amo le icone, i simboli e la retorica, a distanza di settant’anni dalla sua uccisione, mi chiedo che cosa mi lega a questa donna. Mi lega l’amore per la sua e la mia libertà, il desiderio di vivere la vita che entrambe, nelle nostre differenze e in tempi e condizioni diverse, abbiamo scelto. Mi lega la passione politica, la sete di “giustizia sociale” che mi/ci spinse ad entrare a far parte di quella comunità che era il Pci, dove il chiamarsi “compagna” e “compagno” per lei/per me aveva un senso. A lei, insomma, mi lega una parte importante della mia vita, che a un certo punto, senza rimpianti o nostalgie, ho abbandonato per qualcosa di meglio. Lei, venuta prima di me/noi, resta una donna della mia/nostra genealogia. Giuditta è morta in fedeltà a sé stessa e al suo essere comunista. È in nome della sua morte, della storia sua e di tante/i come lei, come me, che mi indigna la risoluzione approvata dal Parlamento europeo che ha equiparato il nazismo al comunismo, falsificando e manipolando quella storia di cui Giuditta Levato è parte, uccidendola così per la seconda volta.
(Quotidiano del Sud, 7 novembre 2019)
N.d.r.: la risoluzione di cui parla Franca Fortunato è quella approvata il 19 settembre 2019 dal Parlamento Europeo “sull’importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa”. Quel testo è frutto di un ‘compromesso’ tra diverse proposte ed è risultato in affermazioni ambigue sugli eventi che portarono alla seconda guerra mondiale e sulle responsabilità dei totalitarismi del Novecento, arrivando ad un’equiparazione inquietante tra nazismo, fascismo e comunismo (vedi Ida Dominijanni, Gli spettri di Strasburgo).
Contro questa risoluzione, votata da tutti i gruppi politici europei e da tutti i partiti italiani, è stato lanciato un appello che l’accusa di stravolgere la memoria storica invece di rispettarla e preservarla.