di Pino Corrias
La cosa più sensata (finalmente) l’ho ascoltata l’altra mattina a Radio 3, una ascoltatrice di Prima pagina che a proposito del mattatoio in corso da quasi un secolo sulle sciagurate sabbie del Medioriente, ha detto: «Se ci fossero le donne al potere da una e dall’altra parte, tutto questo non sarebbe mai successo». È vero. Siamo tutti in balia – e non solo in questo corto circuito geografico, religioso, politico – di plotoni di maschi addestrati alla violenza e alla guerra che perseguono come indiscutibile diritto e santa missione, secondo i precetti stabiliti per sempre dal rispettivo potere supremo: il dio maschile che abita dentro ai cinque libri della Torah e il suo corrispettivo narrato nei 114 capitoli del Corano. Tutti e due figli della parola scritta, il libro sacro, per tramite di gerarchie sacerdotali maschili, gerarchie politiche maschili, che per secoli hanno seminato non solo identità androcentrica, ma anche l’odio tra una religione e l’altra, a fondamento di un potere che da allora regna sulla seconda metà del mondo, quella femminile, sempre ornamentale, ridotta a silenziosa sudditanza, a vittima senza diritti, per comandare indisturbato sotto l’intero cielo del mondo. Provate a scorrere le immagini viste in questi notti e giorni di sterminio, quelle interne ai due poteri in campo: i tagliagole a capo di Hamas; gli sterminatori a capo di Israele. Tutti maschi con sguardi armati e facce cariche di un solo sentimento, la violenza. Il volto annerito dalla barba di Ismail Haniyeh, capo politico di Hamas e dei suoi vice, che dai divani di Doha chiamano alla guerra santa le plebi usate come scudi, indifferenti al martirio del proprio popolo ridotto a masticare polvere e a morire. E poi quella liscia e glabra di Benjamin Netanyahu, ladro di democrazia e di ogni altra decenza, circondato dai suoi ministri che da anni fomentano l’odio contro i palestinesi, sigillano con il filo spinato e con le armi il campo di concentramento di Gaza, armano i coloni che moltiplicano gli insediamenti illegali in Cisgiordania, indifferenti alla deriva sanguinosa che tanta ingiustizia avrebbe prima o poi innescato nel popolo dei prigionieri. Sono tutte e due autentiche gang di inferociti maschi al potere. Capaci di usare un milione di parole per dirne solo una, ripetuta tre volte “Vendetta, vendetta, vendetta!”, e poi moltiplicata altre mille, dall’unico desiderio della distruzione reciproca, della immediata cancellazione del nemico, imprigionati nello stesso specchio. I primi a vendicare i 56 anni «di soffocante occupazione israeliana» che controlla ogni serratura della vita dei palestinesi imprigionati, ogni rubinetto dell’acqua potabile, ogni allacciamento dell’elettricità, ogni medicina che entra. I secondi per lavare il sangue del pogrom del 7 ottobre scorso, «vecchi, donne e bambini macellati» con una velocità, una crudeltà e una euforia che viene dai secoli lontani, nutrita e propagata dal veleno religioso e politico, fino all’apocalisse nazista della Shoah, accaduta appena ieri. «Sono animali, distruggeremo Hamas fino all’ultimo uomo», tuona Tel Aviv. «Resisteremo fino all’ultimo ebreo vivo», rispondono i comandanti di Hamas. Non è impossibile risalire ai torti e alle ragioni. È vano. Perché ogni volta un fiume di sangue e di parole, di promesse e di inganni, di atrocità e di vendette, irromperanno a smentire i torti degli uni e a negare le ragioni degli altri. È una cronologia inondata dal dolore. Un labirinto più lungo dei 400 chilometri di tunnel scavati da Hamas, più vasto degli arsenali accumulati nei depositi dell’armata israeliana.
Ma fateci caso, in queste ore di crudeltà reciproca, di ostaggi esibiti come trofei di guerra senza regole, di bombardamenti a tappeto. È una donna, Yocheved Lifshitz, 85 anni, che un attimo prima di essere rilasciata fa quello che nessun maschio avrebbe mai fatto. Si volta, tende la mano al suo guardiano, dice shalom, “pace”. È la strada che resta, quella che solo le madri, le figlie, le donne saprebbero immaginare.
(Il Fatto Quotidiano, 2 novembre 2023)