di Ilaria Boiano
Le motivazioni della sentenza di condanna all’ergastolo di Filippo Turetta per il femminicidio aggravato di Giulia Cecchettin depositate in data 8 aprile dalla Corte di assise di Venezia ci restituiscono una fotografia nitida della violenza sessista che ha portato alla morte di una giovane donna intenta a realizzare sé stessa in un mondo fatto di relazioni significative che le hanno consentito di porre un freno, interrompendo la relazione sentimentale, a una dinamica di possesso insostenibile. Vengono riconosciute le aggravanti della premeditazione e della relazione affettiva, mentre non viene riconosciuta quella della crudeltà. È importante, però, chiarire che nel diritto penale l’aggravante della crudeltà non coincide con il senso comune di ciò che può essere ritenuto “crudele”. Tecnicamente, questa aggravante presuppone che l’autore del reato abbia inflitto alla vittima sofferenze ulteriori, non necessarie rispetto alla volontà di uccidere e finalizzate ad accrescere il dolore. Non è, quindi, quella della sentenza una valutazione morale o simbolica, ma una definizione giuridica legata all’intenzione dell’autore di accanirsi contro la vittima oltre la finalità omicida. La sentenza chiarisce dunque questo aspetto della condotta di Turetta, ma nell’insieme sgretola la narrazione tossica del raptus, della fragilità per la delusione o della “sofferenza d’amore” dell’uomo che uccide e smentisce ogni tentativo di patologizzazione dell’autore del reato evidenziandone la piena lucidità, la freddezza, la determinazione con cui Turetta ha perseguito e poi ucciso Giulia Cecchettin. Ha agito non per disperazione, ma perché non accettava che la “sua” donna fosse libera. Non tollerava che Giulia Cecchettin potesse autodeterminarsi, vivere la propria vita, studiare, stare con i propri amici e scegliere per sé senza di lui. La pretesa di esclusività su Giulia Cecchettin che risulta provata nel processo penale è il cuore della dinamica possessiva che ha alimentato il controllo e la negazione dell’altra nella sua soggettività.
Colpisce la violenza sottile ma sistematica che precede il femminicidio: non ci sono solo i momenti eclatanti di aggressività o di minaccia, ma un costante tentativo di sottrarre a Giulia Cecchettin ogni autonomia sulla propria esistenza: il controllo sul rendimento universitario, la richiesta ossessiva di sapere dove fosse e con chi, la svalutazione delle sue scelte, la pressione psicologica mascherata da “sofferenza d’amore”. Le parole di Elena Cecchettin, la sorella di Giulia, vengono riprese dai giudici di Venezia per descrivere questa dinamica: la paura “di lui” si trasformava nella paura “per lui”, alimentata dal ricatto emotivo del suicidio, dalla narrazione vittimistica di un uomo che minacciava di farsi del male per punire l’indipendenza di Giulia.
Ma questo “male di vivere” ostentato da Turetta non trova riscontro nella realtà processuale: il professionista che seguiva Turetta, infatti, non ha rilevato alcuna psicopatologia né ha mai registrato una richiesta di aiuto per intenti autolesionistici, bensì solo una volontà precisa di dominare e annientare. Le minacce di autolesionismo erano, dunque, un ulteriore strumento di controllo, usato per impaurire Giulia, per manipolarla, per colpevolizzarla della sua scelta di libertà. E una dinamica che nei centri antiviolenza gestiti da Differenza Donna conosciamo molto bene: le donne ci raccontano spesso che la paura per la vita dell’ex partner maltrattante o persecutore – insinuata da lui stesso – diventa una gabbia ulteriore, fatta di responsabilità rovesciata, isolamento, non di rado alimentata da un discorso pubblico che accusa ciascuna per non aver fatto abbastanza per prevenire un danno, nella logica stereotipata della considerazione per cui “forse se l’è cercata”, con i suoi comportamenti, con le sue scelte, anche con la sua fragilità, di cui si è sempre un po’ colpevoli.
Questa sentenza è importante perché afferma con chiarezza che la violenza sessista fino al femminicidio è esercizio deliberato di potere, riconosce il contesto sessista in cui si è maturato il femminicidio di Giulia Cecchettin, fornendo al contempo la misura di una chiara consapevolezza della giovane donna cui ha contribuito anche il cambiamento culturale e giuridico che, negli ultimi anni, ha nominato la violenza per ciò che è, incoraggiando a riconoscerne le radici strutturali. La parola “femminicidio”, oggi presente nel nostro lessico giuridico e nel dibattito pubblico, non è solo una definizione tecnica, ma il risultato di un lavoro politico, sociale e culturale, è oggi un terreno di conflitto simbolico e concreto, che impone di interrogarsi sul senso della giustizia e di cambiare la domanda che ci poniamo dinanzi alla questione sociale della violenza sessista: perché ancora gli uomini credono di poter disporre della vita di una donna? Anche le parole del diritto hanno confermato ciò che Giulia aveva già capito: che la libertà femminile è intollerabile per chi concepisce l’amore come possesso e, proprio per questo, non dobbiamo smettere di affermarla e difenderla attraverso le pratiche, le politiche e il diritto.
(Domani, 9 aprile 2025)