di Alberto Leiss
È impossibile distogliere lo sguardo dalla scena della morte di Desirée. E non solo per il clamore dei media. Sul corpo di una giovanissima donna si sono addensate una serie di tensioni, affermazioni, azioni che disegnano molta parte, e forse la parte essenziale, del nostro presente.
Spiegazioni per me troppo sicure di certezze sociologiche (Christian Raimo, e lo segnalo perché apprezzo il suo impegno), post su facebook troppo sintetici (Gad Lerner che ricorda le drammatiche condizioni familiari della vittima, attirandosi una bordata di insulti in rete), e poi le manifestazioni politiche. Un ministro che torna due volte, affrontando fischi e applausi, davanti a quel muro con i cuori rossi. Le ragazze femministe di Non una di meno con gli antifascisti e pezzi di sinistra in una piazza. Una settantina di neofascisti un po’ più in là. Un drappello di donne che invoca le ronde.
Ma anche tanti uomini e donne del quartiere che si commuovono, e per alcuni giorni di seguito scendono in strada. Giustizia per Desirée e contro tanta «bestiale» violenza (ma le bestie sono molto meno efferate, chiamiamola col suo nome: violenza maschile). Riscatto per San Lorenzo ferito dal «degrado», orgoglioso della sua storia, con i tanti ritrovi dove si mangia e si beve, si fa musica, ma anche si legge o si discute un libro. Con i «centri sociali» che cercano alternative culturali, politiche, esistenziali, e che nelle intenzioni si rivolgono anche a chi qui ci vive. Intanto sottraendo all’abbandono spazi urbani dimenticati.
I sospettati violenti e violentatori, fino ad ora, sono immigrati irregolari. Questo orribile femminicidio «fa più notizia» per le speculazioni politiche e razziste? Ha senso ricordare le donne quasi quotidianamente uccise tra le mura domestiche, per le quali non si mobilitano immediatamente le piazze e i ministri non portano rose?
È giusto segnalare il cattivo senso comune che istituisce statuti diversi per le vittime – e i carnefici – di delitti simili. Ma credo sbagliato ignorare che quando la violenza avviene in un luogo pubblico, per quanto abbandonato ai margini (e a proposito: la proprietà privata come si sa è sacra, ma che dire di chi possiede quei muri e li lascia per decenni in quelle condizioni?), e se in più viene agita da stranieri, la paura collettiva aumenta. Più persone si sentono direttamente minacciate, espropriate di qualcosa di irrinunciabile.
Ginevra Bompiani ha scritto qui che i corpi dei migranti rappresentano il nostro inconscio. Corpi diversi, inquietanti. Un’amica senegalese mi ha raccontato di quante volte ha subito distanza e ostilità immediata proprio per il colore scuro della sua pelle. Corpi che ci parlano della nostra difficoltà a incontrare altri. E a vedere, comprendere, accettare i nostri stessi corpi. Così come la vera origine dei mali che ci feriscono, del disagio che ci deprime o suscita reazioni aggressive.
Ancora di più vale per il corpo femminile. Parlo per noi uomini: è l’altro di cui non possiamo fare a meno, che provoca il nostro inconscio e lo riflette. Sta qui, credo, l’oscuro legame tra il sessismo e il razzismo. L’incapacità di riconoscere il proprio desiderio e di educarlo – sì, educarlo – alla relazione con l’altra e l’altro.
Il clamore sulla fine di Desirée e di tante altre donne, per mano maschile, non sarà solo un eccesso mediatico e politico se ci spingerà a un esercizio di consapevolezza. Pensarsi al posto di quel padre, degli uomini che ne hanno abusato lasciandola morire, del figlio che forse un giorno Desirée avrebbe potuto volere.
(il manifesto, 30 ottobre 2018)