di Eliana Di Caro
In alto sulla porta c’è scritto “Primo Presidente della Cassazione”, tale era la certezza che a occupare l’ufficio nel monumentale palazzo dovesse essere un uomo. Certezza infranta e superata il 1° marzo di quest’anno, quando all’unanimità è stata nominata al vertice della giurisdizione Margherita Cassano: è la prima volta di una donna in sessant’anni, da quando cioè è possibile per le italiane partecipare al concorso in magistratura. Un traguardo sottolineato anche dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in un passaggio del suo discorso all’Assemblea plenaria del Csm.
Chi è, dunque, Margherita Cassano? Qual è il suo percorso e le sue caratteristiche professionali? Ne parliamo con lei nella sua stanza al “Palazzaccio”. Un sorriso caldo, empatico, comunicativo che nulla toglie a una naturale autorevolezza (nelle scuole la chiamano “attitudine alla leadership”), Cassano è figlia d’arte. Il padre Pietro era magistrato a Firenze – dove lei è nata nel ’55 – ma originario di un paesino della provincia di Matera, San Mauro Forte. Della Basilicata, regione in cui la Presidente torna con regolarità, era anche la mamma, la professoressa Anna Materi: veniva da Grassano, prima breve tappa del confino di primo Levi (seguita da Aliano). Una generazione cresciuta con sacrifici pari alla forza di volontà, costretta a emigrare fin da subito: «Dopo le elementari, a dieci anni, mia mamma fu mandata dai miei nonni, insieme ai fratelli maggiori, a studiare a Firenze da un parente, mentre mio padre frequentò il liceo classico nel convitto nazionale a Matera, poi si laureò in Giurisprudenza a Napoli». Si spiega, dunque, «quanto sia forte, sia in me che in mia sorella Alessandra (è oncologa, ndr) la consapevolezza della storia impegnativa dei miei genitori e come abbia influito sulla nostra formazione, soprattutto nell’idea di doverci impegnare al massimo negli studi e fornire alla collettività ciò che potevamo dare». L’esempio del padre è cruciale nella scelta di Margherita Cassano: Pietro ha celebrato tutti i processi di terrorismo, dalle Brigate Rosse di Curcio all’Ordine Nuovo dell’omicidio Occorso, nel ruolo di Presidente della Corte d’Assise tra la metà degli anni ’70 e la fine degli anni ’80. «Credeva profondamente nel lavoro, è stato sempre impermeabile ai fattori emotivi esterni, per me incarnava la figura del magistrato per eccellenza: terzo, imparziale, molto sereno e senza pregiudizi di alcun tipo», afferma, scegliendo con cura ogni parola. «Ha vissuto per anni sotto scorta, ma non ha mai lasciato trasparire nessuna forma né di turbamento né di preoccupazione», aggiunge. La Presidente si laurea in diritto privato nel giugno del ’78 con Lapo Puccini; tra i professori che hanno inciso sulla sua preparazione compaiono Giorgio Collura, Giuliano Amato, Berardino Libonati, Paolo Grossi. Vince il concorso nel ’79 e nel maggio dell’anno seguente, a neanche venticinque anni, comincia a lavorare alla Procura della Repubblica di Firenze. «Ho avuto l’opportunità di avere maestri veramente speciali come Piero Vigna e Gabriele Chelazzi che all’epoca si occupavano di terrorismo. Successivamente hanno seguito le indagini relative all’attentato di via Georgofili del 27 maggio ’93». La quotidianità incalzante della Procura si palesa subito, non appena la giovane uditrice prende possesso delle funzioni: «Mi misero di turno immediatamente, dopo 24 ore. Ci furono una rivolta in carcere e delle indagini su una brutta rapina, poi venti giorni più tardi il caso di omicidio volontario di un ex fidanzato in danno di una donna… ricordo il sopralluogo, l’ansia del momento, all’epoca non c’erano gli strumenti tecnici di oggi, bisognava fermarsi a lungo sul luogo del delitto, far fotografare i particolari e ricostruire con correttezza la scena del crimine». A quegli esordi farà seguito nell’81 l’ingresso nel gruppo criminalità organizzata e reati in materia di stupefacenti con la collega Silvia Della Monica, a cui si aggiunge Giuseppe Nicolosi. Per anni curano le indagini in questo settore con l’obiettivo finale (tra gli altri) di favorire – grazie all’aiuto del servizio sul territorio – il reinserimento di tante persone che commettevano reato in materia di droga a causa dello stato di tossicodipendenza, per le quali il carcere era il luogo meno opportuno. Promuovemmo il cosiddetto “tavolo tecnico sulle tossicodipendenze” coinvolgendo rappresentanti delle forze dell’ordine, la prefettura, il Comune di Firenze con l’Assessorato alla Sicurezza e ai servizi sociali, associazioni di volontariato: un’esperienza bellissima».
Il cammino verso la Corte di Cassazione è lungo e si sostanzia di tante altre esperienze che fanno di Margherita Cassano una magistrata dal profilo articolato e completo. Dal ’91 entra in vigore la legge della direzione distrettuale antimafia, guidata sempre da Vigna: ne fa parte fino al ’98 («la Toscana era un territorio privilegiato per le possibilità economiche che offre ai gruppi criminali…omicidi, sequestri di persona») quando viene eletta al Consiglio Superiore della Magistratura. «Ricordo che a darmi la notizia fu Elena Paciotti (la prima togata all’interno del Csm nel 1986, ndr), mi chiamò per complimentarsi e mi fece molto piacere». I quattro anni spesi nell’organo di autogoverno dei giudici, istituito per legge nel 1958, le lasciano un’utile conoscenza della macchina organizzativa. In particolare, ricorda, «a orientare le mie scelte successive è stata l’esperienza quale componente effettivo della sezione disciplinare, che svolgeva attività giurisdizionale ed era presieduta dal professor Verde, giurista raffinato». Nel 2003 Cassano approda in Cassazione, diventandone più tardi componente delle sezioni unite. Sono passati oltre ventitré anni dall’ingresso in magistratura, e qui il suo lavoro è completamente diverso, l’attività è quella del giudice, la definisce «una riconversione» che risulta «stimolante: mi è sempre piaciuto studiare». È assegnata alla prima sezione penale «con maestri grandissimi come Torquato Gemelli, Giorgio Santacroce, Gianni Canzio e poi un magistrato come Giovanni Silvestri: le sue sentenze sono una pietra miliare per tutti noi». La diversità delle funzioni svolte offre una riflessione sulle caratteristiche che si devono avere in ciascun ambito e sull’opportunità o meno della cosiddetta “separazione delle carriere”. Margherita Cassano risponde in modo netto: «Esiste un complesso di valori fondamentali che devono appartenere al magistrato in quanto tale, non esistono differenze di doti per fare il pubblico ministero e per fare il giudice. Alcuni prerequisiti sono essenziali per entrambi a partire dalla consapevolezza della grandissima responsabilità che nell’esercizio di ogni funzione ci compete. Noi svolgiamo un servizio in favore dei cittadini, dobbiamo impegnarci per svolgerlo al meglio con attenzione al rispetto dei diritti fondamentali della persona e delle sue esigenze difensive». Chi sceglie questo lavoro deve essere guidato dal «rifiuto di partire da preconcetti o idee precostituite, per il pubblico ministero nella ricostruzione del fatto e per il giudice nella lettura degli atti. Bisogna sempre essere aperti alle tesi contrapposte che vengono sottoposte al nostro esame, e soprattutto adottare la metodica del dubbio come regola logica imprescindibile». Eppure le perplessità, anche in una parte dell’opinione pubblica, permangono. «È con l’esempio quotidiano che si dimostra l’adesione a questi valori, bisogna inverarli costantemente. Non basta proclamarli» conclude Cassano risoluta.
In lontananza si sente un brusio di voci, una riunione è alle porte, il tempo è praticamente scaduto. Il percorso della Presidente, però, non è completo: nel 2016 lascia “momentaneamente” la Cassazione per andare a presiedere la Corte d’Appello di Firenze. Dopo quattro anni arriva un nuovo primato: torna nella Suprema Corte come Presidente aggiunto, cioè una specie di vicepresidente. Anche in questo caso è la prima donna in quel ruolo, l’anticamera della nomina dello scorso 1° marzo. «Io firmo la Presidente. Ce lo dice l’Accademia della Crusca, e anche la nostra sensibilità» commenta. Sul tema dei diritti delle donne – che nella magistratura vanta un passato spinoso, visto il divieto a partecipare al concorso addirittura sino al 1963 – Cassano tiene a trasmettere un messaggio alle nuove generazioni: «Dico sempre alle giovani colleghe che è importante avere memoria storica, essere consapevoli del fatto che la situazione può sempre cambiare, quindi a ciascuno di noi compete la responsabilità di non vanificare l’impegno culturale di tante donne e uomini che hanno reso possibile il conseguimento dì traguardi non individuali ma collettivi. Valorizzare in ogni attività professionale il ruolo della donna è un fattore di democrazia e un arricchimento perché garantisce una pluralità di punti di vista. Un’altra cosa ritengo doveroso sottolineare: le donne che ricoprono ruoli ni precedenza appannaggio esclusivo degli uomini devono avere il coraggio di essere sé stesse e mantenere la propria identità culturale, senza cercare, come forma quasi di insicurezza, di adeguarsi a modelli maschili».
(Il Sole 24 Ore, 9 luglio 2023)